ATTUALITÀ DEL DIRITTO D’AUTORE

SANREMO 2023. I TITOLI COPIATI

(con la collaborazione di Grazia De Santis)

I più sfruttati sono Tango di Tananai e Made in Italy di Rosa Chemical. Gli ingiuriosi Egoista, Mostro, Stupido, mentre Puttana di Madame è diventato Il bene nel male. L’avvocato Patrizio Visco avverte i giovani autori: “Attenti alle denunce”.

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Il Festival di Sanremo resta il principale strumento di giudizio dello stato della creatività musicale degli autori italiani. Dopo 72 anni di motivi orecchiabili diventa sempre più difficile comporre canzoni capaci di stupire per originalità: aspettiamoci nuove accuse di plagio per l’edizione 2023.
Se i sentieri melodico-armonici fino alla scorsa edizione apparivano tutti ripetutamente battuti, anche per i titoli già resi noti dei brani in gara il prossimo febbraio gli autori non sembrano essere stati illuminati da lampi di immaginazione.
Gli unici davvero originali si dimostrano Giorgia con “Parole dette male”, Gianluca Grignani con “Quando ti manca il fiato”, Leo Gassmann con “Terzo cuore” e Anna Oxa con “Sali (Canto dell’anima)”. Tutte le altre canzoni hanno titoli già precedentemente depositati nell’archivio della Società italiana degli autori ed editori. Persino “Un bel viaggio” degli Articolo 31 ha 3 antenati: uno è firmato dal poeta-paroliere nonché medico ospedaliero Sandro Orlandi, un altro dal cantautore Christian Lavoro. Ma Orlandi e Lavoro non hanno trovato editori e cantanti per la pubblicazione, pertanto “Un bel viaggio” degli Articolo 31 ha un solo precedente ascoltabile composto dal cantautore Saverio Grandi e inciso nel 2000 dal duo Taglia 42.
È andata meglio a “Se poi domani” di LDA (all’anagrafe Luca D’Alessio) preceduto da due depositi non pubblicati: il primo di Fabio Cappelli, l’altro del concertista di flauto Maurizio Terzaghi con il testo di Simone Chiccoli.
Anche “Lettera 22”, il brano scritto dai due componenti della Rappresentante di Lista per i Cugini di Campagna, risulta già depositato alla SIAE dal registra teatrale Romain Sabella e dal direttore d’orchestra Paolo Buonvino, che però non l’hanno pubblicato.
Anche Mara Sattei è la prima a incidere “Duemilaminuti”, un titolo già depositato ma non pubblicato da due prestigiosi artisti: il direttore d’orchestra Elio Maestosi assieme al compositore di musica contemporanea Vieri Tosatti.
“Cause perse” è il titolo del brano del rapper Sethu. Un altro rapper l’ha preceduto: s’intitola “Cause perse” la canzone inserita da Skuba Libre (Albino Rizzato) nell’album “L’ultima luce” prodotto nel 2018 dal dj piemontese Big Fish. In totale il titolo “Cause perse” alla SIAE risulta depositato 5 volte.
Seguono i titoli a carta carbone, ossia già utilizzati per brani che sono stati successi di altri artisti. “Mare di guai” la canzone che sarà interpretata da Ariete conta 11 precedenti, tra cui quella del 1994 dei Tiromancino.

Splash inglesi, americani e italiani

“Splash”, il titolo del brano di Colapesce e Dimartino, già famoso negli anni Sessanta per le incisioni jazz di Count Basie e Miles Davis e dopo essere stato nel 1980 una hit internazionale del compositore e discografico inglese Clive Langer è diventato nel 2010 il bestseller del cantautore americano Jeremy Jay e nel 2016 di Gwen Stefani frontwoman della band USA No Doubt. In Italia diverse formazioni hanno inciso canzoni intitolate “Splash”: come la coppia Mario Lavezzi con Manrico Mologni nel 1993, la storica band bergamasca Mototronko (1995), i trapper romani Dark Polo Gang (2018), il beneventano Carlo Zollo col latinense Ketama126 (2020) e nel 2021 sia il trio romano Dabraell, sia MVKilla con Yun Snapp (all’anagrafe di Napoli Marcello Valerio e Antonio Lago).
“Un titolo come Splash non esprime un’opera dell’ingegno tutelabile. Riproporlo poteva rappresentare un pericolo negli anni Sessanta, ma oggi dopo tre quarti di secolo di canzoni pop non si rischia alcunché – dice l’avvocato Patrizio Visco, tra i maggiori esperti italiani di diritto d’autore – Bisogna invece prestare attenzione ai titoli compositi che risultano più efficaci. Suggerisco agli artisti di comportarsi come alcuni dei loro colleghi più affermati che prima di depositare un titolo consultano l’archivio della SIAE per verificare se esistono precedenti”.
“Non mi va” del gruppo Colla Zio ha un precedente rintracciabile in un 45 giri storico: s’intitola “Non mi va” il lato b di “Bella Ciao”, nella popolarissima interpretazione di Milva, anno 1965. “Non mi va” è stato poi un successo del 1987 di Vasco Rossi, presente nell’album “C’è chi dice no”, ed è anche il titolo del brano pubblicato nel 2022 dal rapper Samurai Jay (Gennaro Amatore).
“Supereroi” di Mr. Rain ha 42 precedenti. Almeno due di artisti noti: Deborah Iurato, vincitrice dell’edizione 2014 del talent show Amici, ha inciso “Supereroi” nel 2020, e Ultimo ha composto e cantato il suo “Supereroi” nel 2021 diventato il tema dell’omonimo film di Paolo Genovese.

Due, Due vite, Duemilaminuti

Il numero Due a Sanremo 2023 si affaccia tre volte. Oltre a “Duemilaminuti” di Mara Sattei s’intitola “Due vite” il brano di Marco Mengoni che annovera oltre 50 precedenti con almeno due – sempre due – perle: il “Due vite” di Paolo Jannacci del 2007 e il “Due vite” di Gino Paoli scritto con la moglie Paola Penzo nel 2009.
S’intitola invece semplicemente “Due” il brano di Elodie: prima di lei incisero “Due” Drupi nel 1975, Riccardo Cocciante nel 1985, Renato Zero nel 1991, Raf nel 1993; Mario Biondi ha invece intitolato “Due” il suo album del 2011. Stesso titolo usato nel 2020 dal duo Coma Cose per l’EP realizzato assieme al musicista e produttore aquilano Stefano Tartaglini, in arte Stabber.
I Coma Cose a Sanremo 2023 canteranno “L’addio”. Un titolo inflazionato. Il più celebre precedente è un classico della canzone napoletana: “L’addio” scritto nel 1923 dal poeta Libero Bovio con il compositore ed editore Nicola Valente e interpretato da voci nobili della canzone partenopea come Franco Ricci, Roberto Murolo, Fausto Cigliano, Giacomo Rondinella, Bruno Venturini, Angela Luce e da Miranda Martino con l’orchestra di Ennio Morricone. “L’addio” è anche una cover della popstar statunitense Neil Sedaka, adattata nel 1969 in lingua italiana da Paolo Limiti. “L’addio” è addirittura già stata in gara al Festival di Sanremo nel 1970, scritta da Plinio Maggi, Andrea Lo Vecchio e Sergio Bardotti per la voce di Michele. Hanno inciso “L’addio” anche Giuni Russo nel 1981, Franco Battiato nel 2008 e Noemi nel 2010.

Le più celebri voci del passato

Altro titolo moltiplicato è “Cenere” del rapper Lazza. Fu uno straordinario successo degli anni Cinquanta, scritto da Vigilio Piubeni per i versi di Bixio Cherubini e interpretato dalle voci più importanti dell’epoca: Giorgio Consolini, Luciano Tajoli, Luciano Virgili, Claudio Terni, Antonio Vasquez. Altri “Cenere” sono stati incisi dalla band Marlene Kuntz nel 1996, da Syria nel 2008, da Silvia Olari nel 2010, da Mimmo Locasciulli nel 2018, dai rapper Clementino (Clemente Maccaro) nel 2017, Nashley Rodeghiero nel 2019 e Deddy (Dennis Rizzi) nel 2021.
Levante ha intitolato il suo brano “Vivo”, come quello del 1962 di Giuseppe Cioffi, autore di storiche canzoni partenopee come “Agata”, “‘Na sera ‘e maggio”, “Dove sta Zazà?”, “Scalinatella”. Cioffi scrisse “Vivo” assieme a due celebri amici, l’attore milanese Gianni Musy e il paroliere napoletano Giuseppe Compostella. Un “Vivo” è stato inciso nel 1978 da Renato Zero con le parole di Franca Evangelisti, un altro “Vivo” è stato scritto da Riccardo Del Turco per Andrea Bocelli nel 2018. L’ultimo famoso “Vivo” è di Andrea Laszlo De Simone che il web magazine Rockit ha premiato quale canzone più bella del 2021.
“Lasciami” dei Modà conta oltre 50 precedenti, con le firme di compositori e parolieri tra i più prestigiosi dal dopoguerra a oggi, come Corrado Lojacono negli anni Cinquanta, la coppia Vito Pallavicini e Gianpietro Felisatti negli anni Sessanta, il direttore d’orchestra Franco Micalizzi con Corrado Bonicatti negli anni Settanta, il trio Marco Ciappelli con Luca Angelosanti e Franco Morettini ovvero gli autori di Alessandra Amoroso e Nina Zilli. Hanno scritto e inciso “Lasciami” anche il cantautore Paolo Frescura nel 1977 e il cantautore Seba (Sebastiano Barbagallo) nel 2007. Il “Lasciami” più recente è quello dell’artista afroitaliana Kaze (Paola Giorgia Formisano) composto assieme a Adel Al Kassem.

Il Furore di Adriano Celentano

“Furore” di Paola e Chiara è stato il titolo della canzone più fortunata di Adriano Celentano nel 1960. Un’altra “Furore” fu composta da due collaboratori di Fabrizio De André: i chitarristi Michele Ascolese e Daniela Colace nel 1992, incisa da Colace. Ancora “Furore” uscì scritta ed eseguita da Vinicio Capossela nel 1994. Ultimo “Furore” quello del duo franco-tedesco di musica elettronica Stereo Total, cantato in italiano nel 1997.
Sono oltre 100 nell’archivio delle opere musicali della SIAE le canzoni intitolate “Polvere”, come quella di Olly. La prima a vendere centinaia di migliaia di dischi fu scritta nel 1954 da Angelo Galletti e Mario Micheletti, incisa dai melodici più in voga dell’epoca: Narciso Parigi, Luciano Tajoli, Giorgio Consolini. Nel 1973 la stessa “Polvere” divenne un successo dell’orchestra di liscio Castellina-Pasi. Una nuova “Polvere” è stata scritta e cantata nel 2000 da Giovanni Lindo Ferretti e un’altra ancora nel 2002 da Federico Zampaglione e Andrea Pesce per il loro gruppo Tiromancino.
Ed ecco i titoli record per numero di precedenti. Si comincia con “Alba” di Ultimo depositato oltre 300 volte, con tante pubblicazioni di artisti di importante calibro: Mia Martini con l’orchestra di Natale Massara nel 1974, Alan Sorrenti nel 1976, Francesco Renga nel 2002, Noemi nel 2014 (se poi aggiungiamo l’articolo con l’apostrofo, “L’alba” la troviamo anche con Umberto Bindi, Peppino Gagliardi, Nino D’Angelo, Riccardo Cocciante, Jovanotti, Salmo, Emam e mille altri interpreti di minore notorietà).

Quanto Tango Made in Italy

“Tango” di Tananai è da primato assoluto: sono 7472 le canzoni registrate alla SIAE contenenti nel titolo il nome del ballo argentino (come le regine Tango delle capinere, Tango della gelosia, Tango del mare). Ma anche la sola “Tango” conta su precedenti illustri: l’hanno incisa Paolo Conte nel 1975, Lucio Dalla nel 1979, Anna Oxa nel 1979, Milva nel 1982, Rossana Casale nel 1986, Grazia Di Michele nel 1987, Angelo Branduardi nel 1988, Julio Iglesias nel 1996, Cristiano Malgioglio nel 1998, ultimi i Liftiba sempre nel 1998. Inoltre sono intitolati “Tango” l’album del direttore d’orchestra James Last del 1981 e quello dei Matia Bazar del 1983.
È da primato anche “Made in Italy”, il titolo della canzone di Rosa Chemical. Un titolo utilizzato dalle aziende discografiche per vantare le caratteristiche dell’opera dell’ingegno tricolore. Il titolo “Made in Italy” è stato negli anni utilizzato per gli album di Loredana Bertè, Matia Bazar, Alan Sorrenti, Alice, Nada, Enzo Avitabile, Daniel Sentacruz Ensemble, Banco del Mutuo Soccorso, Fiordaliso, Nicola Arigliano, Pino Donaggio, Claudio Lolli, Nino Buonocore, Bruno Martino, Bottega dell’Arte, Mau Mau, Statuto, Gil Ventura, Mango, Albano, Renato Carosone e perfino Ettore Petrolini. Hanno inciso canzoni espressamente intitolate “Made in Italy” il complesso di Riccardo Rauchi con la voce solista di Sergio Endrigo nel 1959, Jimmy Fontana nel 1973, Ricchi e Poveri nel 1981, Fausto Papetti nel 1981, Carmen Villani nel 1988, Gemelli Diversi nel 2001, Gigi D’Alessio nel 2006, Luciano Ligabue nel 2016.

Titoli da insulto: Egoista, Mostro, Stupido

Un capitolo a parte meritano i titoli a carattere d’improperio. Il primo è “Egoista” di Shari. Nell’archivio della SIAE anche “Egoista” supera i 100 depositi, un epiteto diffuso soprattutto nelle canzoni di lingua ispanica. Le più famose nel mondo con il titolo “Egoista” sono del portoricano Javid Alvarez, del dominicano Victor Antonio Saldana Santos e dello spagnolo Antonio Raul Fernandez Gonzales. Un altro “Egoista” di grande successo negli Stati Uniti è stato pubblicato nel 2019 da Nina Joory con Valentina Lopez. In Italia l’“Egoista” più quotato è di Alexia, uscito nel 2013.
A “Egoista” si aggiunge “Mostro” di Gianmaria. Nell’archivio della SIAE ne sono presenti oltre 50 con l’articolo: “Il mostro” di Nada, di Samuele Bersani cantato con Lucio Dalla, di Gianluca Grignani, di Enrico Ruggeri. “Mostro” senza articolo, identico al titolo di Gianmaria, è stato scritto dal musicista e regista Carlo Virzì nel 1999 per la band Snaporaz; “Mostro” è poi nel repertorio di Nef (2013) e in quello di Federica Carta (2021).
Dopo egoista e mostro l’improperio diventa insulto: così Will porta all’Ariston “Stupido”, un titolo che conta comunque oltre 100 precedenti. Hanno inciso “Stupido” il cantautore milanese Walter Foini nel 1979, il clarinettista Gianni Sanjust nel 1991, il rapper Massimo Pericolo (Alessandro Vanetti) nel 2021 e Sissi (Silvia Cesana) altra voce lanciata dal talent show Amici nel 2022. Da notare 3 raddoppi famosi: lo “Stupido Stupido” con cui il paroliere Giuseppe Cassia titolò in italiano per Dusty Springfield il brano di Burt Bacharach e Hal David “Wishin’and Hopin’”, lo “Stupido Stupido” inciso da Leopoldo Mastelloni nel 2008 e lo “Stupido Stupido” di Fedez nel 2022.

La Puttana corretta di Madame

A fare peggio ci aveva provato Madame con la canzone per Sanremo intitolata originariamente “Puttana”. Poi modificata in “Il bene nel male”. Il titolo “Puttana” in realtà sarebbe stato tutt’altro che originale. Chi abbia deciso la modifica in “Il bene nel male” – la stessa artista, il suo manager o lo staff di Amadeus per evitare imbarazzi – non è chiaro. Sta di fatto che quell’epiteto che un tempo veniva pudicamente ammorbidito in “donna di facili costumi” ha una valanga di precedenti.
Nell’archivio delle opere musicali della Società italiana degli autori ed editori si trovano infatti a oggi ben 177 titoli che contengono il termine puttana.
Alcuni sono famosi, come “Grande figlio di puttana” degli Stadio del 1982, firmato da Lucio Dalla e Gianfranco Baldazzi sulle note di Gaetano Curreri e Giovanni Pezzoli.
Un anno prima Luca Barbarossa aveva depositato un “Roma puttana” alternativo a “Roma spogliata”. Non ritenne di apportare modifiche al suo “Non fare la puttana” il rapper Fabri Fibra: il brano uscì nell’album “Mr. Simpatia” del 2004.
Tra i titoli presi in esame prevale il senso dell’imprecazione. Sono 10 i “Porca puttana” (uno lo depositò Alberto Baldan Bembo, arrangiatore e direttore d’orchestra in due edizioni del Festival di Sanremo) e 3 i “Puttana miseria” (uno del cantautore romagnolo Enrico Mancini per le edizioni Brutture Moderne). Ci sono i più delicati “La mia puttana” (Daniel Ursini), “La mia puttana triste” (Luca Signorini) o gli ingiuriosi “Sei una puttana” (Gabriele Deliperi), “Puttana che sei” (Silvano Rosso), “Brutta puttana” testo di Manuele Pepe (cantautore in gara a Sanremo nel 1983) sulla musica di Giuseppe Landro e Leonardo Rosi.

Lucciola, Prostituta o Peripatetica?

Talvolta gli insulti si estendono ai familiari: “Quella puttana di tua sorella” (David Florio) e addirittura “Mia madre è una puttana” (Eros Priori).
A riscattare la parità dei sessi ci ha pensato la showgirl e modella pugliese Gaetana Fasano, autrice del testo di “Uomo puttano”, musica di Pietro Forleo.
Un’alternativa a puttana è prostituta, vocabolo citato nel titolo di 45 canzoni registrate alla SIAE. Si va da “La prostituta stupefatta”, scritta dal poeta e medico Ariele D’Ambrosio sulle note di Alessandro Cerino, a “Innocente prostituta” della pianista cantautrice Valeria Sanzone.
Il primo a depositare un brano con questa parola nel titolo fu il leggendario direttore d’orchestra Carlo Savina, che Ennio Morricone nella sua biografia ha citato come propria guida: è di Savina “Poppea… una prostituta al servizio dell’impero” motivo conduttore del film omonimo diretto nel 1972 da Alfonso Brescia.
Tra i diversi sinonimi nell’archivio SIAE troviamo 6 “Peripatetica” (uno di Pino Morabito con la musica di Elvio Monti) e il latineggiante “Dolce meretrice” di Simone Andreoli.
Un altro importante musicista che si cimentò in titoli con simili caratteristiche fu il maestro Geden Capellari, abituale accompagnatore negli anni Cinquanta di artisti di primo piano come Nilla Pizzi, Carla Boni, Giorgio Consolini. Il maestro Capellari fu insignito nel 1986 della medaglia d’oro della SIAE insieme con Ennio Morricone, Federico Fellini e Renato Carosone. Resta sua la canzone con il titolo più impetuosamente espressivo del concetto di donna di facili costumi. Nel 1981 Capellari compose e depositò “Mignotta”.
Senza dubbio il “Lucciole vagabonde” del paroliere Bixio Cherubini musicato nel 1927 da Cesare Andrea Bixio suonava più elegante rispetto a tutti i sinonimi utilizzati successivamente. Anche il termine lucciole era riferito a donne che offrono prestazioni sessuali dietro pagamento di un corrispettivo in denaro, ma certamente quel titolo non avrebbe provocato alcun imbarazzo ad Amadeus.

LADRI DI CANZONI

200 anni di liti musical-giudiziarie dalla A alla Z

“Poiché il nostro amico si serve dei nostri pensieri, ci da una prova di stima; egli non li prenderebbe se non li credesse buoni. E noi abbiamo torto di sdegnarci del fatto che, non avendo figli, adotta i nostri”.

(Edmond Rostand, Cirano de Bergerac)

ladri di canzoni

“Nell’ispirazione c’è un ricordo che ci porta altrove la mente;
nel plagio c’è un giudice che ci porta altrove i ricavi”.

(M. Bovi)

“Michele Bovi, con questo suo lavoro letterario svolto con una meticolosa ricerca dei dati storici, ci offre una vera enciclopedia dei plagi musicali, utile non soltanto agli appassionati ma anche agli operatori del diritto che hanno così a disposizione una vasta casistica dei “precedenti” e della loro evoluzione nel tempo”.

(Dalla prefazione dell’avvocato Giorgio Assumma)

Ladri di canzoni: l’imprescindibile volume di Michele Bovi
sul plagio musicale

del M° Girolamo De Simone
per italiaore24.it

Michele Bovi è il maggior conoscitore di vicende che concernono i plagi musicali: suoi sono i dossier per Raiuno e Raidue sullo scottante tema della violazione, vera o presunta, dei diritti d’autore. Ora, dopo aver pubblicato libri imprescindibili sul tema (come Anche Mozart copiava, Auditorium 2004), ed essersi dedicato, al quello non lontano degli eroi e dei banditi nella musica (Note segrete: eroi, spie e banditi della musica italiana, Graphofeel 2017) ha dato alle stampe un monolite che riesce a condensare informazioni, gradevolezza di consultazione, agilità divulgativa e precisione dei riferimenti. Il volume si intitola Ladri di canzoni. Duecento anni di liti musical-giudiziarie dalla A alla Z, Hoepli 2019. Il Leitmotiv è tracciato da Michele Bovi sin dalle prime righe del ponderoso (ma fruibilissimo) volume:

“Ladri di canzoni, di musiche, di parole, di concetti sono fatalmente tutti quelli che oggi realizzano opere d’ingegno destinate a un consumo popolare. Un’affermazione che vale per l’arte in generale, per la musica in particolare e segnatamente per la cosiddetta musica leggera nelle diverse accezioni: rassegniamoci, da tempo ogni possibile combinazione melodica, armonica, ritmica, testuale è stata scovata, rimuginata, rovesciata, rielaborata. Pertanto gli autori, per quanto onesti e virtuosi, sono inevitabilmente esposti all’accusa di indebita appropriazione di lavori altrui da parte di masse di ascoltatori autodesignatisi esperti del pentagramma”.
(Michele Bovi, Ladri di canzoni, Hoepli, p. 1)

L’esperienza, e diversi tracciati presenti in Ladri di canzoni ci portano a considerare che l’abitudine dell’appropriazione tematica, armonica e oggi addirittura ‘timbrica’, di mood, di campioni di suono o formule costruttive (si pensi ai software di composizione automatica) è purtroppo travasata ed esistita in ogni campo musicale, fino a raggiungere la musica di ricerca, che pure subisce continui furti. L’abitudine, ormai consolidata, è quella di attingere a piene mani da chi scopre nuove formule discorsive, edita, mette in rete opere che non riescono a produrre utili. Dopo aver individuato e rubato queste idee, esse vengono ridotte in formule e anestetizzate, addomesticate, svuotate dei contenuti più aspri (e critici, direbbe Adorno), e poi reinserite in un circuito di vendita: in grado, stavolta, di produrre vero denaro.
La possibilità di far ciò, di estrarre formule da idee, praticamente in ogni abitazione con l’ausilio di un semplice computer domestico, fa sì che chiunque possa depauperare del potenziale innovativo la musica realmente contemporanea (che non è assolutamente, si badi, quella sperimentalistica del secolo appena trascorso, di per sé incapace di rinvio di senso, e pertanto spesso inoffensiva per mancanza di ‘uscite’ dall’autoreferenzialità di microcircuiti caratterizzati solo da accademismo, carrierismo, manierismo snob), svilire – quindi – questa musica in grado di ‘dire’ qualcosa all’altro, a partire dalle pieghe di una rivoluzione del linguaggio (ben al di là della retorica del linguaggio comune), e dalla voce di chi fosse restato a urlare nelle ferite del piano (come alluso da Foucault, ma forse ancor meglio come ha mostrato Deleuze) per poi, dopo questo ‘sminamento’ sonoro, rivenderne l’appropriazione su canali a vocazione populista (nulla contro il popolare: ma siamo da decenni contro il populismo lasciato intender quale popolare). L’estetica dei media ha facilitato questa coazione, ha reso inoffensiva, perché appunto non populista, molta produzione di qualità, senza doverla per forza censurare, o sopprimere. È bastato ignorarla, prenderne alcuni stilemi, collocarli in un remix e venderli. Nessuna rivoluzione del linguaggio può avvenire in queste condizioni, perché persino il buono del kitsch (che anche in Broch si rintraccia) finisce col rivestirsi di una patina d’autorevolezza, conferita dagli incassi e dalla facile notorietà tipica del moto inerziale all’acquisto promanato dalle pile sugli scaffali degli autogrill.
In questo quadro, la possibilità residuale del valore ‘moltiplicato’ delle merci è ormai smarrita nell’ottica non già di una pluralità d’offerta da ‘supermercato’ (studi sulle prime Coop lo dimostrarono), che era parsa una buona idea in un certo momento della riflessione estetica, ma di una falsa e finta moltiplicazione da Centro commerciale. Il Centro: sin dal nome, nuova piazza dove collocare percorsi già decisi a tavolino (quindi ‘precorsi’ più che percorsi): merci di scarto, residuali, che i giovani trovano nelle periferie come unica offerta per i tempi residui di loro itineranze. Tutto ciò ha ormai svilito la possibilità di scelta e persino il bello dei percorsi ‘periferici’ di una volta. Esiste solo ciò che il Centro ci propone: e spesso si tratta di una pietanza rimasticata e sputata via – appunto – come scarto di produzione.

Quali possibilità di uscita? Il libro di Michele Bovi ci induce a una riflessione su come le pratiche di imitazione siano sempre esistite. Ma una cosa è il plagio estetico, quello che può citare perché il modello citato è già noto, già assimilato nella consapevolezza di generazioni che ne hanno sedimentato la forza di una progressione dei linguaggi, un’altra cosa è questa fagocitazione che di fatto rallenta la forza del nuovo, la vera innovazione (che si ripete, è Discorso) e quindi rende impossibile una critica e un avanzamento della comunità. E là dove l’estetica langue, si è circondati dal brutto (che qui è il già consolidato dal gregge), che oggi è soprattutto noia. I più giovani sono esposti alle rimasticature, alle cover-di-cover, e i grandi che Michele Bovi cita vengono anch’essi triturati in un gioco delle approssimazioni e dei rinvii musicali, dei rifacimenti, di pezzi inascoltabili che passano in Tv e purtroppo anche sui social, e che diventano virali in ragione del loro maggior svuotamento, allontanamento dalla profondità dell’invenzione originale.

Perciò, riflettere su questi meccanismi è cosa che dovrebbe partire dai banchi dei Licei, e le conseguenze delle pratiche di plagio – estetico o illiberale che sia – dovrebbero essere visibili, immediatamente leggibili, a tutti: per mantenere le possibilità di sopravvivenza dei linguaggi, di nuovi Discorsi, appassionarci a un bello non sputato via, o – quantomeno – “consapevolmente rimasticato”.
Per tutte queste ragioni, ho posizionato il volume di Michele Bovi affianco ai manuali Hoepli che si occupano di acustica, registrazione, video-arte, quelli insomma che consulto ogni giorno per le mie lezioni: è un libro prezioso.

Ulrico Hoepli Editore, 2019
Pagine: 350
ISBN: 978-88-203-9044-0

CACCIA ALLE CANZONI PER BIMBI

RETROSCENA: DA ANNA DAI CAPELLI ROSSI A I DUE LIOCORNI. LA CONFESSIONE DI VINCE TEMPERA 40 ANNI DOPO L’EXPLOIT DELLE SIGLE DEI CARTONI ANIMATI. IL SEQUESTRO DI MAGO ZURLÌ E IL PROCESSO CHE CONDANNÒ I DUE COCCODRILLI.

(articolo di Michele Bovi pubblicato da Huffingtonpost il 16 luglio 2021)

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Le copertine di Ufo Robot (Vince Tempera, Ares Tavolazzi, Luigi Albertelli) e di Remì le sue avventure (voce di Gian Paolo Daldello).

Tutta colpa di Bandiera rossa. O forse merito, visto che Vince Tempera, direttore d’orchestra tra i più popolari del nostro paese, proprio scoprendo il trucco legato all’inno dei lavoratori socialisti e comunisti del secolo scorso, riuscì a sbancare l’hit parade con una delle canzoni che hanno ipnotizzato due generazioni di bambini: Anna dai capelli rossi, sigla del cartone animato giapponese che arrivò sui nostri teleschermi nel 1980 per poi rimanerci a oltranza. Il brano era firmato da Tempera con il testo di Luigi Albertelli, ma il Tg2 riscontrò l’eccessiva somiglianza con un successo internazionale del gruppo Boney M, intitolato Rivers of Babylon. Fu in quell’occasione che il compositore raccontò che entrambi i brani nascevano dal raddoppio delle note di Bandiera rossa, musica in pubblico dominio, pertanto con licenza di cattura da parte di compositori americani, tedeschi e tanto più di colleghi italiani.

La confessione di Vince Tempera a Tg2 Dossier Canzoni segrete di Michele Bovi.

Tra Otis Redding e Wilson Pickett

Sul valore di Vince Tempera non ci sono dubbi. Caposaldo dell’avanguardia pop è stato fin da giovanissimo il punto di riferimento italiano dei mostri sacri del rhythm and blues: poco prima della sciagura aerea in cui perse la vita, l’inarrivabile Otis Redding aveva firmato la produzione per Arthur Conley – altra stella della soul music – di un pezzo dal titolo che vilipese la lingua di Dante Alighieri: Più bellissima, musica di Vince Tempera, testo di Antonio Amurri. Il disco uscì all’inizio del 1968. E al Festival di Sanremo del 1969 il colosso Wilson Pickett affidò a Tempera l’arrangiamento della sua versione della canzone di Lucio Battisti Un’avventura. L’inizio di una carriera di assoluto prestigio come compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra.

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Le copertine di Più bellissima di Arthur Conley e di Un’avventura di Wilson Pickett (versione spagnola).

Tutte arie della tradizione popolare

Ma Vince Tempera è stato anche l’asso-pigliatutto delle sigle dei cartoni animati. In coppia con il paroliere Luigi Albertelli ha monopolizzato le musiche delle matite colorate giapponesi, un disco d’oro dietro l’altro, da Ufo Robot a Goldrake, da Capitan Harlock a Capitan Futuro.
Oggi Tempera confessa dettagliatamente come dietro a quei risultati ci sia stato anche uno straordinario lavoro di editori musicali, italiani, tedeschi, americani: accordi riservati che hanno consentito la globalizzazione dei singoli progetti.

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Le copertine della sigla di Anna dai capelli rossi e di Rivers of Babylon dei Boney M.

È la storia di Anna dai capelli rossi.
Rivers of Babylon era nata nel 1970, incisa dal gruppo giamaicano Melodians e quindi proiettata al successo internazionale nel 1978 nell’interpretazione dei Boney M. – racconta Vince Tempera – Il gruppo era formato da quattro cantanti-ballerini caraibici gestiti da Frank Farian, un geniale produttore discografico tedesco. Scoprii il trucco melodico-armonico di alcuni dei loro pezzi, tra cui l’analogia con Bandiera rossa, e assieme ai miei editori della EMI trattammo una collaborazione con quelli di Frank Farian, gli editori Hansa Music di Francoforte, ben felici di utilizzare in tandem progetti musicali che trionfavano in diverse hit parade. Anche Brown Girl in the Ring e Nightflight to Venus, entrambe scritte da Farian e incise dai Boney M. nel 1978, diventarono gli spunti per altre due nostre affermate sigle per cartoni animati, Remì e le sue avventure del 1979 e Astro Robot contatto Ypsilon del 1980. Mi ero infatti accorto che sia Brown Girl in the Ring che Nightflight to Venus nascevano da arie, una giamaicana e l’altra algerina, della tradizione popolare dei rispettivi paesi, dunque in pubblico dominio”.

Giù le mani dallo Zecchino d’oro!

Il rapporto tra canzoni per bambini e televisione si è rivelato sempre un’isola del tesoro. Ma ogni volta che sono venute meno le intese tra autori ed editori ovvero quando qualcuno ha tentato di fare il furbo o si è mostrato oltremodo sprovveduto le musiche sono finite in tribunale.

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Cino Tortorella assieme a Topo Gigio (fotogramma, La Repubblica).

La prima causa in proposito risale al gennaio del 1965 e coinvolse l’attore Felice “Cino” Tortorella, molto celebre e amato in quegli anni per l’interpretazione del Mago Zurlì, protagonista assoluto assieme a Topo Gigio dei programmi televisivi pomeridiani destinati ai più piccoli, Zecchino d’oro in testa.
Tortorella aveva denunciato l’etichetta discografica Italmusica che senza l’ombra di autorizzazioni aveva pubblicato un disco con filastrocche per bambini avvolto in una copertina in cui campeggiava il titolo Le canzoni di Mago Zurlì. Non si trattava di plagio ma di violazione del diritto di esclusiva di Tortorella al popolarissimo pseudonimo. Il pretore di Milano ordinò il sequestro del disco.

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Mago Zurlì (Cino Tortorella) sulla copertina del Radiocorriere e il libro+cd de I due liocorni.

Che confusione nell’Arca di Noè

Andò peggio anni dopo ai coccodrilli di Retequattro.
“Ci son due coccodrilli / ed un orango-tango / due piccoli serpenti, un’aquila reale / il gatto, il topo, l’elefante / non manca più nessuno/ solo non si vedono i due liocorni”. È una delle canzoni più popolari negli asili nido italiani da oltre quarant’anni. Portata al successo nel 1978 dal gruppo riminese Zafra capeggiato dalla cantante Marina Valmaggi, autrice del testo del brano e coautrice della musica assieme all’ingegnere edile Roberto Grotti. Il testo racconta di Noè che tra tutte le coppie di animali che ospitò sull’Arca prima del diluvio universale non riuscì a comprendere i liocorni perché non si erano presentati all’appello: motivando così l’estinzione della specie.
Otto anni più tardi il brano venne riutilizzato ancora per il target infantile, con alcune novità: il titolo I due liocorni era stato trasformato in I due coccodrilli, identici i primi sei versi del ritornello e della relativa melodia, diverse le firme nel deposito Siae. La nuova canzone esordì nell’ottobre 1984 come sigla della terza edizione di M’ama non m’ama, preserale di largo successo di Retequattro, interpretata da Ramona Dell’Abate, conduttrice del programma assieme a Marco Predolin. I due coccodrilli era accreditata a Marcello Dell’Abate, fratello di Ramona, oltreché a Paolo Limiti e Leon Philippe Garilli, autori della trasmissione televisiva. Il motivo fu accolto trionfalmente dal pubblico televisivo, soprattutto da quello rappresentato da famiglie con bambini, convincendo subito i discografici della Emi a stamparne il singolo in 1.500 copie. Il disco però non riuscì a entrare nel circuito di distribuzione, bloccato da un provvedimento di sequestro con divieto assoluto di commercializzazione ordinato dal pretore di Milano a seguito della tempestiva denuncia per plagio presentata da Gianni Rugginenti editore de I due liocorni.

I magistrati tra coccodrilli e liocorni

Nella fase istruttoria del processo Paolo Limiti e Leon Philippe Garilli convinsero il magistrato che la loro firma nel deposito della canzone incriminata non stava a significare la reale partecipazione alla composizione ma soltanto la prassi diffusa di coinvolgere nello sfruttamento economico delle sigle televisive gli autori del programma. Marcello Dell’Abate da parte sua si difese affermando di aver sentito più volte la filastrocca utilizzata prima ancora della pubblicazione de I due liocorni, tanto da ritenere si trattasse di un motivo tradizionale, pertanto in pubblico dominio: considerazioni smentite dalla perizia del consulente tecnico nominato dal giudice che depose a favore dell’originalità del brano.
Il processo arrivò a sentenza nel 1991: il tribunale civile del capoluogo lombardo condannò per violazione del diritto d’autore Marcello e Ramona Dell’Abate e la Emi Italiana, chiamati tutti al risarcimento dei danni nei confronti di autori ed editore de I due liocorni. Due anni dopo la Corte di appello riformò in parte la prima sentenza, confermando la condanna per plagio ma imponendo al solo Marcello Dell’Abate di indennizzare i denuncianti. Il giudice Piero Pajardi volle credere alla buonafede di Ramona Dell’Abate che aveva sostenuto di non sapere che la canzone scritta dal fratello fosse stata copiata e dette altresì ragione alla Emi Italiana perché la sigla di M’ama non m’ama era stata realizzata con l’orchestra di Retequattro prima ancora dell’incisione del disco, dunque il reato non era stato commesso con il supporto discografico.

Anche Rosario Fiorello sbagliò animali

Gli autori de I due liocorni dovettero in seguito più volte intervenire per correggere le coordinate di diffusione del loro brano. “Anche Rosario Fiorello una volta ammise di averla fatta cantare nei villaggi turistici come I due coccodrilli, pensando fosse un canto tradizionale” ha raccontato il vero autore Roberto Grotti.
Dei due titoli indubbiamente è più facile ricordare il secondo. Al prossimo diluvio universale i due liocorni faranno bene a presentarsi all’appello di Noè: gli assenti hanno sempre torto. E i coccodrilli restano in agguato.

SANREMO 2021. I TITOLI COPIATI

(con la collaborazione di Grazia De Santis)

Amare, Ora, Voce, Parlami, Goal!a rischio denuncia

IL FESTIVAL DI SANREMO RESTA IL PIÙ OGGETTIVO STRUMENTO DI VALUTAZIONE DELLO STATO DELLA CREATIVITÀ MUSICALE DEGLI AUTORI ITALIANI. DOPO 70 ANNI DI CANZONI ORECCHIABILI DIVENTA SEMPRE PIÙ ARDUO COMPORRE UNA MELODIA CAPACE DI SORPRENDERE PER ORIGINALITÀ: ASPETTIAMOCI NUOVE ACCUSE DI PLAGIO PER L’EDIZIONE 2021.

Sanremo_2021

Se i sentieri melodico-armonici sono stati tutti ripetutamente battuti, anche per i titoli delle canzoni gli autori non sembrano orientati ad azzardare guizzi di immaginazione. Persino un gruppo dal nome stravagante come La Rappresentante di Lista parteciperà al Festival con la canzone Amare: scontato supporre l’esistenza di precedenti di un titolo del genere, che infatti è stato addirittura già in gara a Sanremo, edizione 1979, proposto da Mino Vergnaghi. Eppure basta poco per distinguersi pur rimanendo sui medesimi termini e concetti: ad esempio Scialpi nel 1991 intitolò la sua canzone A…Amare e Andrea Mingardi al Festival di Sanremo del 1994 giocò al raddoppio con Amare amare. Lo ha fatto quest’anno Willie Peyote con Mai dire mai, al quale ha aggiunto, tra parentesi, (La Locura), un termine a doppio senso: metà follia in spagnolo, metà cultura del lockdown. E ha fatto bene: senza quel supplemento la sua canzone si sarebbe confusa nella marea di Mai dire mai eseguite negli ultimi 60 anni da una formidabile schiera di celebrità della musica italiana. A cominciare dal 1959 quando Mai dire mai composta da Aldo Salvi con le parole di Gian Carlo Testoni diventò un successo per Caterina Valente ripetuto un anno dopo da Peppino Di Capri. Da allora a incidere sempre diverse Mai dire mai sono stati Anna Oxa (1984), Renato Zero (1986), i Pooh (1987), Tosca (1996), Ricchi e Poveri (1998), Paolo Belli (1999), Umberto Tozzi (2000), Fausto Leali (2002) Alberto Fortis (2005), Alexia (2005), poi Anna Tatangelo il cui singolo Mai dire mai battezzò il suo album del 2008 e per ultimo Ligabue nel 2019.
Il canone del copia-copia vale invece per Ora, il brano di Aiello. Adottò questo titolo nel 1966 Bruno Martino per il motivo iniziale del varietà televisivo Aria condizionata, poi surclassato dalla popolarità della sigla finale Se telefonando di Mina; dopo Martino incisero canzoni intitolate Ora Eros Ramazzotti (1985), Dora Moroni (1986), i jazzisti Giorgio Gaslini (1988) e Avishai Cohen (1998), Ludovico Einaudi (2004), Chiara Civello (2005), il gruppo Dirotta su Cuba (2005), Jovanotti (2011) e per ultimo Gigi D’Alessio che ha intitolato Ora il brano guida del suo album del 2013. Idem per Voce affidata alla… voce di Madame: Bungaro cantò Voce nel 1990 e Lara Fabian si esibì con lo stesso titolo al Festival di Sanremo 2015 e un anno dopo un’altra Voce emerse dall’album di Arisa. Anche Parlami, titolo del brano di Fasma, conta diverse decine di precedenti, alcuni illustri come Parlami di Peppino Gagliardi del 1972, seguito da incisioni con identico titolo di Anna Oxa (1985), Laura Pausini (2004), Marco Carta (2012), Lorenzo Fragola (2016).
Il fenomeno dei titoli non originali a Sanremo 2021 rimane diffuso almeno quanto nelle precedenti edizioni. Nell’Archivio delle opere musicali della SIAE scopriamo che Glicine il titolo del brano scritto da Mahmood e Dardust per Noemi era stato depositato già 40 volte, la prima nel 1937 da Mario Ruccione e Giuseppe Micheli, ovvero il compositore e il paroliere di Faccetta nera e l’ultima nel 2020 dal rapper romano Carl Brave. Il titolo Arnica di Gio Evan ha 19 precedenti, 7 sono quelli per Cuore amaro di Gaia e Chiamami per nome della coppia Francesca Michielin-Fedez, 6 per Momento perfetto di Ghemon, 5 per E invece sì di Bugo, 4 per Torno a te di Random e 2 per Santa Marinella di Fulminacci e Il farmacista di Max Gazzé. Se il copia-copia dei titoli risulta traboccante nella categoria dei Campioni, in quella delle Nuove proposte le cose non vanno meglio. Il più sfruttato è Regina di Davide Shorty con precedenti di rango come il Regina scritto da Vito Pallavicini e Udo Jürgens nel 1968 per il cantante e attore ceco Karel Gott, quello di Franco Talò del 1969, quello del tenore Franco Tagliavini e quello di Renato Zero ambedue del 1977, quello di Gaio Chiocchio del 1980 e poi il Regina scritto ed eseguito nel 1983 da Don Backy per la sigla del programma televisivo della Rai Mille bolle blu e quello del pianista jazz Michel Petrucciani del 1986. Inoltre sono 16 i precedenti per Polvere da sparo di Gaudiano, 15 per Lezioni di volo di Wrongonyou, 11 per Che ne so di Elena Faggi, 10 per Scopriti di Folcast. Superano addirittura quota mille i precedenti per il vocabolo ‘goal’ utilizzato per il titolo della canzone sanremese da Avincola. In questo caso il cantautore ha impiegato un accorgimento: quello di aggiungere il punto esclamativo in coda. Così Goal! ha ridotto abbondantemente il numero dei precedenti, comunque tanti: il più famoso risale al 1935, un Goal! interpretato da Crivel, tra i più popolari cantanti del regime fascista.

Cosa dicono gli esperti di Diritto d’autore

Avvocato Giorgio Assumma, Roma
“Il titolo serve proprio per differenziare un’opera dalle altre, se più opere sono identificate con lo stesso titolo si crea una confusione – spiega l’avvocato Giorgio Assumma, già presidente della SIAE – Chi può ribellarsi all’uso di un titolo? L’autore dell’opera originaria o i suoi parenti o i suoi eredi. E questa reazione può avvenire anche quando l’opera non è tutelata e quando è caduta in pubblico dominio perché essa continua a esistere senza limitazioni di tempo. Spesso accade che non venga impugnato l’utilizzo di titoli successivi al primo, perché non ci sono più i parenti legittimati ad agire. In tal caso nell’interesse pubblico è il Ministero dei Beni Culturali che può fare un’azione presso il magistrato affinché la seconda opera non sia intitolata come la prima, proprio perché è interesse della collettività distinguere le varie opere anche se non più protette”.

Avvocato Gianpietro Quiriconi, Milano
“I titoli simili sono confondibili e la SIAE dovrebbe rifiutarli innanzitutto per il rispetto dovuto alla proprietà intellettuale che secondo me è la più sacra delle proprietà. – dice l’avvocato Gianpietro Quiriconi – Poi perché alla confusione consegue la possibilità del drenaggio dei profitti da opere celebri e altamente remunerate a composizioni modeste con lo stesso titolo. Quando un tempo nei locali da ballo si compilavano i borderò per la SIAE alcuni capi orchestra inserivano propri lavori titolati come canzoni famose per sfruttare l’equivoco. Il titolo andrebbe considerato come segno distintivo non soltanto dell’opera dell’ingegno ma anche di un prodotto aziendale in quanto bene economico. Pertanto un titolo che imita servilmente il segno distintivo di un prodotto altrui andrebbe considerato in base allo stesso principio giuridico di un illecito civile per concorrenza sleale”.

Bruno Lauzi: “Quelli che hanno copiato i miei titoli”

Il cantautore Bruno Lauzi a “Eventi Pop: Sanremo patrono del copia-copia” di Michele Bovi, Raidue 2003.

Dino Verde: “Quel processo per il titolo di Sanremo”

L’autore Dino Verde a “Eventi Pop: Sanremo patrono del copia-copia” di Michele Bovi, Raidue 2003.

Il Goal! di Crivel (1935) prima del Goal! di Avincola

Il brano “Goal!” del 1935 eseguito da Crivel (Ferdinando Crivelli) il cantante più attivo negli anni del regime fascista. Incise circa tremila canzoni.

SANREMO 2020. I TITOLI COPIATI

Eden batte tutti, seguono Andromeda, Carioca e Viceversa

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Apprezzabile l’accortezza degli autori dei brani di Rita Pavone e di Elettra Lamborghini che hanno aggiunto sottotitoli per marcare le differenze: Niente (Resilienza 74) quello di Rita, Musica (e il resto scompare) quello di Elettra. Originali TikiBomBom di Levante, Nell’estasi o nel fango di Michele Zarrillo, Lo sappiamo entrambi di Riki, Voglio parlarti adesso di Paolo Jannacci, Rosso di rabbia di Anastasio. Con gli altri cominciano i potenziali guai in merito a plagio e contraffazione. A partire dal Me ne frego di Achille Lauro che nell’Archivio delle opere musicali della SIAE conta 18 precedenti: il primo del 1921, firmato dal compositore Manfredo Lina con il testo di Rino Visconti, inno degli squadristi della mussoliniana Marcia su Roma. Degni di nota sono anche i Me ne frego depositati da due celebri direttori d’orchestra: il primo del 1981 a firma di Mario Bricarello, storico flautista del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, il secondo di David Sabiu – già in due edizioni sul podio di Sanremo – inciso nel 2001 dall’Orchestra Borghesi. Come mia madre, il titolo del motivo di Giordana Angi ha un precedente del 1981 di Anselmo Genovese, cantante anni Settanta e autore per Mina e Ornella Vanoni, così come Fai rumore è stata depositata alla SIAE nel 1990 dall’autore e disc-jockey torinese Beniamino Luppino. Ho amato tutto di Tosca ha 2 precedenti come Finalmente io di Irene Grandi. Il sole ad est di Alberto Urso ha 4 precedenti mentre ne elenca 12 il No grazie di Junior Cally. Poi partono i titoli molto ricorrenti, come Baciami adesso (14 precedenti) di Enrico Nigiotti: un’altra Baciami adesso addirittura aveva gareggiato proprio nel Festival di Sanremo edizione 2008 scritta da Pasquale Panella e Daniele Ronda per la voce di Mietta. Sono 15 i Sincero registrati alla SIAE prima di quello di Bugo e Morgan, 16 i Gigante come quello di Piero Pelù e 17 i Il confronto come quello di Marco Masini, l’ultimo è del compositore Andrea Guerra per la colonna sonora del film La finestra di fronte diretto nel 2003 da Ferzan Özpetek. Oltre 20 sono i Dov’è del gruppo Le Vibrazioni. Arrivano poi gli iper-inflazionati. Carioca di Raphael Gualazzi è originariamente il titolo di uno dei brani più famosi del jazz, creato nel 1933 da Vincent Yumans, uno dei più celebrati compositori statunitensi dell’epoca: è stato di volta in volta pubblicato da mostri sacri come Coleman Hawkins, Artie Shaw, Gerry Mulligan, Chet Baker fino al nostro Henghel Gualdi nel 1960. Carioca, con oltre 50 utilizzi, è anche un titolo della colonna sonora composta da Guido e Maurizio De Angelis per il film Savana violenta diretto nel 1976 da Antonio Cimati e Mario Morra. Viceversa di Francesco Gabbani è un titolo diffusissimo, con oltre 60 depositi, negli Stati Uniti e in Sudamerica (ma regolarmente registrati anche alla SIAE da sub-editori italiani) ed è il titolo della colonna sonora composta da Stephane Meer per una tra le più popolari serie tv francesi. In Italia il primo Viceversa fu scritto ed eseguito nel 1958 da uno dei supremi interpreti della canzone napoletana: Giacomo Rondinella. Supera i 60 precedenti anche il titolo Andromeda di Elodie: il primo è del 1964 a firma di Ernesto Nicelli, direttore dell’Orchestra ritmico-sinfonica della RAI di Milano, il più recente (2019) è del pianista jazz Claudio Filippini. Il primato dei precedenti spetta in questa edizione a Eden di Rancore: più di 100 canzoni con lo stesso titolo, oltre 2400 quelle che contengono la parola Eden. I brani Eden più blasonati nel nostro paese sono stati quello del 1977 di Carlo Savina, il compositore italiano con all’attivo il numero maggiore di colonne sonore cinematografiche, quello di Paolo Conte nel 1990, quello di Renato Zero nel 1991 per l’album La coscienza di Zero e quello dei Subsonica nel 2011. “I titoli simili sono confondibili e la SIAE dovrebbe rifiutarli innanzitutto per il rispetto dovuto alla proprietà intellettuale che secondo me è la più sacra delle proprietà. – dice l’avvocato Gianpietro Quiriconi, tra i massimi esperti italiani in Diritto d’autore – Il titolo andrebbe considerato come segno distintivo non soltanto dell’opera dell’ingegno ma anche di un prodotto aziendale in quanto bene economico. Pertanto un titolo che imita servilmente il segno distintivo di un prodotto altrui andrebbe considerato in base allo stesso principio giuridico di un illecito civile per concorrenza sleale”. Di certo dopo un secolo di canzonette occorre un po’ d’impegno per rintracciare un titolo che non sia stato utilizzato in precedenza. Facciamo l’esempio di Ringo Starr, il brano che eseguiranno al Festival i Pinguini Tattici Nucleari. Possibile che in passato ad altri sia venuto in mente di intitolare una canzone con il nome del componente dei Beatles? La risposta è sì. L’Archivio della SIAE custodisce altri 5 brani col titolo Ringo Starr: la più famosa è della rockband statunitense Devilhead (1996), la più recente (2010) dei party-rocker milanesi Deluded By Lesbians. Per completezza di cronaca va aggiunto che il batterista dei Fab Four fu per la prima volta citato in una canzone pubblicata nel 1978 da I Nuovi Angeli, scritta da Umberto Napolitano con le parole di Paolo Limiti. Era intitolata Non piange Ringo Starr.

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Canzoni che sono state dedicate a Ringo Starr
(in una ricerca pubblicata da Rockol)

TORNANO A MORRICONE LE COLONNE USA

UNA DECISIONE DELLA CORTE D’APPELLO DEGLI STATI UNITI CHE PUÒ RIVOLUZIONARE IL RAPPORTO TRA AUTORI ED EDITORI.

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Il maestro Ennio Morricone mette a segno un colpo che minaccia di destabilizzare i tradizionali rapporti tra autori ed editori sull’intero territorio statunitense. Lo scorso 21 agosto il giudice Dennis Jacobs, presidente del secondo circuito di Corte d’Appello degli Stati Uniti, ha infatti stabilito che il compositore italiano può riappropriarsi dei diritti di sei colonne sonore realizzate tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 e affidate in gestione al gruppo che gestisce in America le licenze della prestigiosa casa di edizioni musicali Bixio, fondata un secolo fa da Cesare Andrea Bixio, uno dei padri storici della canzone italiana (scrisse capolavori come Mamma, Parlami d’amore Mariù, Vivere, Guapparia). Secondo i legali di Morricone il contratto tra lui e il Bixio Music Group risultava scaduto già nel 2012, ciononostante gli editori hanno continuato ad amministrare i diritti delle colonne sonore sul territorio statunitense. Nel 2017 il Tribunale federale di New York aveva respinto la richiesta di Morricone, in virtù della differente considerazione, tra la legge italiana e quella americana, della paternità di un’opera musicale: negli Stati Uniti il produttore del film è anche colui che commissiona le musiche e ne diviene proprietario, mentre in Italia il compositore resta il titolare della propria opera dell’ingegno. E la Corte d’Appello presieduta da Dennis Jacobs ha riconosciuto l’interpretazione italiana, attribuendo all’autore, ai sensi della legge sul Copyright degli Stati Uniti, la prerogativa di revocare i diritti dell’opera dopo 35 anni dalla sua creazione. A convincere il magistrato americano è stata l’avvocata newyorkese di Morricone, Jane Carol Ginsburg, docente di Diritto della proprietà artistica e letteraria alla Columbia University. Una decisione che può indurre innumerevoli compositori italiani di brani famosi negli Stati Uniti – e non soltanto legati a colonne sonore cinematografiche – a reclamarne la restituzione dei diritti da parte delle case editrici a stelle e strisce.

ANCHE HESSE COPIAVA (PITIGRILLI)

Hermann Esse VS Pitigrilli

Hermann Hesse.…………………………………………………………….Pitigrilli.

Nel film “Il caso Thomas Crawford” (2007, diretto da Gregory Hoblit) il protagonista Anthony Hopkins pronuncia la frase “Anche un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno”. Una frase percepita come citazione di “Anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno” che lo scrittore tedesco Hermann Hesse (1887-1962) pubblicò ne “Il Giuoco delle Perle di Vetro” (Das Glasperlenspiel, 1943); tanto più che il film è frutto di una produzione tedesco-statunitense. In realtà quella frase tanto persuasiva era già apparsa nella sostanza (“Una volta al giorno anche gli orologi fermi dicono la verità”) nel libro “I Vegetariani dell’Amore” pubblicato nel 1931 a firma di Pitigrilli (Dino Segre, 1893-1975) lo scrittore italiano più popolare e diffuso all’estero tra le due guerre mondiali. “I Vegetariani dell’Amore” era stato tradotto in tedesco e pubblicato in Germania nel 1932 con il titolo “Vegetarier der Liebe”, pertanto 11 anni prima del saggio di Hesse.
La stessa frase compare nella canzone “Tufotronik 3000”, presente nell’album “L’attesa” (1999) del rapper italiano Kaos One, certamente a sua volta convinto di citare Hesse e non Pitigrilli, originario e geniale ideatore dell’efficace aforisma.