7 TIPOLOGIE POP

GENE PITNEY

La storia della RCA Italiana

Il cantante statunitense Gene Pitney eccezionale narratore della storia del 45 giri, per un Tg2 Dossier realizzato nel 2001, ovvero a mezzo secolo dalla nascita del supporto musicale più amato da tre generazioni di giovani e nei giorni della chiusura della maggiore casa discografica della penisola: la leggendaria RCA Italiana (dal 1987 passata alla BMG) con conseguente sgombero degli storici e prestigiosi stabilimenti romani di Via Tiburtina. Dalla cassaforte della RCA Italiana uscirono per l’occasione brani inediti di Lucio Battisti, Mia Martini, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Claudio Baglioni.

Gene Pitney conduce “Quando andavamo a 45 giri” di Michele Bovi, Tg2 Dossier RAI, giugno 2001.

INTERVISTE E IMMAGINI CHE APPAIONO NEL PROGRAMMA

Interviste
– Ennio Melis, già direttore RCA Italiana
– Augusto Giribaldi, già tecnico del suono RCA Italiana
– Little Tony, cantante
– Franco Migliacci, paroliere
– Edoardo Vianello, cantante
– Gino Paoli, cantante
– Sergio Bardotti, già direttore Linea Giovani RCA Italiana
– Ennio Morricone, già arrangiatore RCA Italiana
– Sergio Endrigo, cantante
– Nada, cantante
– Vincenzo Micocci, già dirigente RCA Italiana
– Alberto Fortis, cantante
– Roberto Gasparini, già direttore BMG
– Mario Cantini, già editore discografico RCA Italiana

Immagini
– Perry Como
– Mario Lanza
– Harry Belafonte
– Rita Pavone
– Gianni Morandi
– Frank Sinatra
– Pat Boone
– Petula Clark
– Paul Anka
– Sandy Shaw
– José Feliciano
– Joan Baez
– Charles Aznavour
– Little Tony con Gene Pitney
– Ricky Shayne
– Edoardo Vianello
– Gino Paoli
– Patty Pravo
– Claudio Baglioni
– Neil Sedaka
– The Platters
– Lucio Dalla
– Mia Martini
– Lucio Battisti
Gene-Pitney

Gene Pitney

Gene Pitney con Michele Bovi, Hartford (Connecticut) 2001.

Raggiunsi Gene Pitney nella sua casa di Hartford, nel Connecticut, la cittadina dove era nato nel 1940. Mi mostrò il “salone della musica” in cui conservava i suoi ricordi: le pareti tappezzate da manifesti anni ’60 di cantanti italiani, da Caterina Caselli a Gigliola Cinquetti, da Gianni Pettenati a Dino, poi foto con Little Tony, con Sergio Endrigo, immagini del suo matrimonio celebrato a Ospedaletti nel 1967 durante il Festival di Sanremo. “L’Italia è stata la mia America – mi disse mentre la moglie Lynne mi offriva un caffè espresso, ristretto e bollente come a Napoli Centrale – Negli USA ero partito bene: una manciata di dischi in testa alla Hit Parade dopo il grande successo del 1961 di Town Without Pity, il tema del film La Città Spietata, composto da Dimitri Tiomkin, uno dei più grandi compositori di colonne sonore cinematografiche. Ma subito dopo arrivarono la popolarità europea e l’apoteosi italiana: da voi fu un sogno meraviglioso, concerti, radio e televisione senza soste, un disco d’oro dopo l’altro, coccolato da un popolo che adoro”. Gene Pitney è morto per infarto il 5 aprile del 2006, a Cardiff (Galles) la sera successiva a un suo acclamato concerto.

Gene Pitney Lynne

Gene e Lynne Pitney.

ENRICO CARUSO

La Voce di Enrico Caruso

A DISTANZA DI UN SECOLO LA PIÙ GRANDE VOCE DI TUTTI I TEMPI, QUELLA DEL TENORE ENRICO CARUSO, TORNA A FARSI SENTIRE ATTRAVERSO OLTRE QUATTROMILA PAGINE DI LETTERE SCRITTE E RICEVUTE DALL’ARTISTA.

Si tratta di un’imponente quantità di materiale assolutamente inedito prodotto da Caruso nell’arco di 24 anni, dal 1897 fino a poco prima della morte avvenuta a Napoli, sua città di origine, il 2 agosto del 1921. Oltre al materiale epistolario vi sono caricature, disegni e vignette di cui Caruso fu geniale autore, polizze assicurative attestanti pagamenti di premi e risarcimenti, ricevute, conti, rimesse bancarie, estratti conto, trasferimenti, ricevute di alberghi di tutto il mondo, atti del processo che lo vide coinvolto e pienamente assolto a New York per “disorderly conduct”. Destinatari e mittenti delle lettere sono soprattutto la prima compagna Ada Giachetti da cui l’artista ebbe i figli Enrico jr. e Rodolfo e la moglie americana Dorothy Benjamin Parker che dette a Caruso la figlia Gloria, ma anche suoi eminenti contemporanei come Giacomo Puccini e Guglielmo Marconi.
Il ritrovamento di tale materiale permette la sistemazione biografica definitiva dell’inarrivabile tenore e inoltre consente una descrizione senza precedenti degli anni e dei protagonisti più importanti del melodramma italiano. La straordinaria documentazione è stata ritrovata dal giornalista Michele Bovi e dallo scrittore Pasquale Panella che l’hanno utilizzata per la realizzazione del Tg2 Dossier intitolato “La Voce di Enrico Caruso”.

La voce di Caruso” di Michele Bovi e Pasquale Panella, Tg2 Dossier RAI, 22 novembre 2008.

NEIL SEDAKA

“A casa di Neil Sedaka”, di Michele Bovi.

Timeless Popstar

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Neil Sedaka Bussoladomani

Il 13 marzo 2022 ha compiuto 85 anni, da oltre 60 anni compone canzoni e da altrettanto tempo frequenta la hit parade internazionale: la scalò la prima volta con Stupid Cupid, affidata alla voce squillante dell’amica Connie Francis, che fu il tormentone dell’estate americana del 1958; l’ultima volta con Solitaire, che è stata nel 2005 in vetta alla classifica USA, interpretata dal giovanissimo Clay Aiken.
Solitaire è una cover. Fu composta e incisa da Sedaka nel 1972 e da allora è entrata nel repertorio discografico di una trentina di popstar: da Elvis Presley a Petula Clark, da Shirley Bassey a Sheryl Crow. E proprio nel febbraio 2010 la raccolta The Music of My Life, compendio musicale della sua carriera, è comparsa nella classifica dei 200 top album di Billboard.
Tra i dischi d’oro di casa Sedaka ce ne sono tre interamente italiani, ovvero non successi americani dell’artista tradotti nella nostra lingua (almeno 10 sue canzoni divennero regine dei juke-box nostrani), ma brani scritti da autori residenti nella penisola, compreso quel maestro Luis Bacalov, argentino di origini ma già alla fine degli anni Cinquanta accasato al chilometro 12 di Via Tiburtina, laddove svettavano gli edifici della RCA Italiana.
I tuoi capricci e La terza luna, entrambe di Luis Bacalov e Franco Migliacci, e Adesso No di Gianni Meccia furono nella prima metà dei Fabulous Sixties le canzoni che maggiormente legarono l’artista newyorkese al pubblico di casa nostra. In italiano Neil Sedaka ha inciso quattordici 45 giri e tre album, concedendosi addirittura tre brani del repertorio partenopeo: I’te vurria vasà, ‘Na sera ‘e maggio e Scapricciatello.

Neil Sedaka sull'Appia Antica (Roma, 1964)

Neil Sedaka sull’Appia Antica (Roma, 1964).

Mister Sedaka, come è cominciata la sua avventura italiana?

I miei primi titoli, da Stupid Cupid a I Go Ape, erano stati accolti con entusiasmo dal pubblico italiano in versione originale. Conservo ancora i dati: nel 1959 Oh Carol restò per 11 settimane al primo posto in classifica nel vostro paese. I miei discografici e gli editori mi suggerirono di riproporre i successi americani nelle diverse lingue europee. Li registrai pertanto in tedesco, francese, spagnolo ed italiano. Mia nonna era spagnola ed io parlo abbastanza bene quella lingua e l’italiano che è molto simile mi risultava particolarmente orecchiabile. Nacquero così le prime cover: Esagerata, Un Giorno Inutile, Tu Non lo Sai, Il Re dei Pagliacci. Furono tutti successi.

Neil Sedaka dischi italiani

Come andò nel resto d’Europa?

Bene dappertutto. Anche in Sudamerica, grazie alla lingua spagnola. Successivamente incisi anche in ebraico e in giapponese. Ma l’Italia fu il paese dei fuochi artificiali: quello che mi dette le soddisfazioni maggiori. Le cover dei miei brani americani non bastavano, la richiesta superava abbondantemente l’offerta; mi affidai pertanto agli autori italiani. Bacalov e Migliacci confezionarono per me I Tuoi Capricci e La Terza Luna. Howard Greenfield, fraterno amico autore dei testi delle mie canzoni, mi disse che dovevo essere orgoglioso di avere Franco Migliacci come paroliere italiano: l’autore, con Modugno, della leggendaria Volare!
In effetti Migliacci realizzò una serie di miracoli: trasformò ad esempio Another Night, Another Heartache, un brano composto da me e Greenfield che negli Usa era rimasto al palo delle vendite, in La notte è fatta per amare, che divenne popolarissimo nel vostro paese. Di contro, io portai al successo in America, riproposte in inglese, sia La Terza Luna che In Ginocchio da Te, che Migliacci aveva scritto con Bruno Zambrini per Gianni Morandi.

Lei fece diverse tournée in Italia. Che cosa ricorda del nostro pubblico?

Mi esibii più volte alla Bussola di Viareggio. Ricordo un pubblico elegante e preparato, oltre che caloroso. Ricordo Sergio Bernardini, il proprietario della Bussola, impareggiabile intenditore di artisti e musica pop. Rividi Bernardini nel 1984, quando tornai in Italia per un concerto alla “Bussoladomani”: non era più il proprietario ma venne ugualmente a salutarmi nel camerino: sempre molto affettuoso. Le mie origini artistiche sono legate alla musica classica, ero stato selezionato dal grande Arthur Rubinstein quale miglior concertista 1957 della prestigiosa Julliard School. Per questo, agli inizi della carriera, in apertura delle mie esibizioni pubbliche, amavo suonare al piano un brano del repertorio classico: Chopin, in particolare. Ricordo che a Catania il pubblico rimase inizialmente ammutolito. Poi via via sempre più rumoroso… prima bisbigli, poi fischi… finché mi si avvicinò un organizzatore implorandomi di smettere: “Scusi, Mister Sedaka, ma il pubblico italiano da lei si aspetta un altro genere di musica…”

Ci rimase male?

Noooo…, avevano ragione loro! Forse avrei fatto meglio a suonare Chopin al termine del concerto, per non disorientare il pubblico che non era tenuto a conoscere i miei trascorsi classici. Devo dire che i miei fan italiani non furono molto fortunati. Prima di uno spettacolo a Riccione fui colto da una forma acuta di bronchite. Le sere precedenti si era esibita nello stesso locale la grande Mina che aveva quindi abituato il pubblico a eccellenti performance. Pensate un po’ la reazione quando a salire sul palco fu un Neil Sedaka praticamente afono che dopo 15 minuti di miserabili tentativi gettò la spugna. Insomma chiesi scusa ed abbandonai la scena.

Il pubblico fu comprensivo?

Direi di no. Anzi, fu una specie di incubo. C’era anche mia moglie Leba. Fuggimmo sull’auto dell’impresario, mentre alcuni spettatori inferociti ci rincorsero tirandoci barattoli di pomodori. Un’altra volta, nello splendido teatro greco di Taormina dovevo cantare due canzoni per uno show ripreso dalla tv italiana. Anche in quell’occasione rimasi senza voce e gli organizzatori utilizzarono il play-back. Devo ammettere che la colpa era tutta mia: la mia voce è acuta e fragile ed io non sapevo usarla. Ho imparato successivamente le tecniche di respirazione e di canto e a dosare il diaframma. Gli errori di un novellino!

Nonostante gli errori di inesperienza il pubblico italiano però l’adorava…

È vero! Mi sposai a settembre del 1962 e subito dopo venni in tournée in Italia. Ma Ettore Zeppegno, il dirigente della RCA Italiana che mi seguiva passo dopo passo, mi supplicò di presentare in pubblico mia moglie come mia sorella, per non dare una delusione alle fan. All’aeroporto di Roma mi venne incontro una ragazza. Mi baciò e mi disse: “Neil, finalmente ti conosco di persona, dopo un anno di lettere d’amore!”. Le chiesi a quali lettere facesse riferimento: lei mi mostrò un pacco di fogli zeppi di frasi incandescenti con la mia firma. Ma non era la mia calligrafia… era quella di mio padre, che si era… generosamente preso la briga di rispondere alle mie ammiratrici!

Trascorse lunghi periodi in Italia?

Sì, soggiornavo all’Hotel Hassler a Roma, in cima a Trinità dei Monti, il panorama più bello del mondo! Ero spesso in sala d’incisione. Ricordo che mi affidarono anche la colonna sonora del film Il Gaucho con Vittorio Gassman.

Neil Sedaka a Roma Trinità dei Monti

Neil Sedaka a Trinità dei Monti

Neil Sedaka a Trinità dei Monti (Roma 1964).

Neil Sedaka Roma

Neil Sedaka sul Colle Celio (Roma, 1964).

Le manca giusto la partecipazione al Festival di Sanremo…

Dovevo partecipare a Sanremo nel 1965, con il brano Non basta mai. Ma la RCA decise di ritirare i suoi cantanti da quell’edizione del Festival e organizzò una manifestazione analoga, un “controfestival” che venne proposto dalla tv italiana con il titolo di Pick-Up. Era condotto da Walter Chiari e c’eravamo tutti noi cantanti della Rca: Paul Anka, Rita Pavone, Gianni Morandi, Dalida, Dino, Alain Barriere, Jimmy Fontana, eccetera.

Che memoria!

È stato un periodo aureo, divertente e indimenticabile della mia vita ed io ero in cordiali rapporti con tutti. Soltanto Gino Paoli mi dimostrò un pizzico di ostilità. Credo che la casa discografica intendesse fare incidere a me la sua bellissima Sapore di sale. E lui protestava: giustamente voleva essere lui ad eseguire la sua canzone. Ma io non avevo nessuna colpa: i progetti dei discografici non dipendevano da me!

Da alcuni anni una sua composizione, I Must Be Dreaming, che lei incise in italiano con il titolo Un giorno inutile, nelle cronache musicali viene accostata ad un successo di uno dei nostri maggiori cantautori, Settembre di Antonello Venditti. C’è chi sostiene si tratti di plagio. Che ne pensa?

Ho ascoltato Settembre e penso che la somiglianza con la mia canzone deponga a favore della popolarità che i miei brani riscuotevano all’epoca in Italia. Venditti era un ragazzino, quel motivetto gli è verosimilmente rimasto impresso. Ha scritto la sua canzone 25 anni dopo la mia, anche se avesse preso spunto intenzionalmente non ci vedrei nulla di male. Per molti dei miei primi successi mi sono ispirato a canzoni di altri autori: Bobby Darin, Lloyd Price, Bobby Vee. L’importante è che lo spunto rimanga tale e che poi la composizione segua una strada diversa. E Settembre è una canzone diversa da I must be dreaming.

Neil Sedala a Roma con i carabinieri

Neil Sedaka con i carabinieri (Roma, 1964).

Neil Sedaka “The Dreamer” (Cinebox 1963).
Neil Sedaka “Breaking Up is hard to do” (Cinebox, 1963). [Dalla collezione Pietro Bologna].

Lei ha composto più di mille canzoni. Ce n’è una che predilige in assoluto?

Certamente Laughter In the Rain, che nel 1975 mi consentì di ritornare alla ribalta dopo 10 anni in cui ero caduto nel dimenticatoio. Con i Beatles e la British Invasion il successo mi voltò le spalle: smisi di cantare e tirai avanti scrivendo canzoni per altri artisti come Tom Jones e i Fifth Dimension. Poi Elton John mi scritturò per la sua etichetta: azzeccai subito una manciata di dischi da vertice classifica e da allora non mi sono più fermato. Oggi ho due figli grandi, due nipotine gemelle e un terzo nipote che sono la mia gioia, ma anche un calendario gonfio di concerti in tutto il mondo.

E a Broadway è andato in scena recentemente un musical con le sue canzoni…

S’intitola Stupid Cupid e racconta storie di ragazzi degli anni ‘50 sulle note di venti mie canzoni. Altre soddisfazioni mi arrivano dall’Inghilterra: un mio brano degli anni ‘70, Amarillo, interpretato da Tony Christie, è la sigla di una fortunata serie televisiva e per mesi è stato in vetta alla classifica dei più venduti. Sia Christie che io abbiamo deciso di devolvere i profitti in beneficenza: Amarillo è una canzone che in passato ci aveva già fatto guadagnare soldi a sufficienza.

E per quanto riguarda l’Italia?

Negli ultimi anni sono uscite due raccolte con tutti i miei dischi in italiano. Evidentemente il pubblico non ha completamente dimenticato I Tuoi Capricci e La Terza Luna. Io, di contro, ho inciso in inglese Nessun Dorma dalla Turandot di Giacomo Puccini: s’intitola Turning Back the Hands of Time e fa parte di un repertorio di classici, da Chopin a Tchaikowsky, che ho riarrangiato e ai quali ho aggiunto i testi, e che ho eseguito accompagnato da orchestre sinfoniche in teatri inglesi e americani, non ultima la Carnagie Hall. Ecco, se tornassi a Catania con questo repertorio forse stavolta non verrei fischiato. O sì?

Neil Sedaka “La terza luna” (Cinebox, 1963).
Neil Sedaka, intervista (New York, 2005).
Neil Sedaka riceve il Disco d’oro per “I tuoi capricci” (Roma, 1963).
Neil Sedaka, Intervista (New York, 2005).
Neil Sedaka “Tu non lo sai” (Breaking Up is Hard to Do) (“Alta Pressione” RAI, 1962).

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Michele Bovi con Neil Sedaka nel 1984 a Bussoladomani

Michele Bovi con Neil Sedaka nel 1984 alla Bussoladomani, Viareggio.

Neil Sedaka and his wife, Leba, in 1984 at the Bussoladomani, Viareggio Italy.

Neil Sedaka con sua moglie, Leba, nel 1984 alla Bussoladomani, Viareggio.

Neil Sedaka con sua figlia, Dara, nel 1984 alla Bussoladomani, Viareggio.

Neil Sedaka con sua figlia, Dara, nel 1984 alla Bussoladomani, Viareggio.

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Michele Bovi con Neil Sedaka nel 2005 durante un’intervista nella sua casa di New York.

Michele Bovi con Neil Sedaka nel 2005 durante un’intervista nella sua casa di New York.

SERGIO ENDRIGO

L’uomo che non ride è un poeta felice

IL PIÙ RAFFINATO CAPOSTIPITE DELLA CANZONE D’AUTORE ITALIANA È SCOMPARSO IL 7 SETTEMBRE DEL 2005. ECCO LA SUA ULTIMA INTERVISTA IN CUI TRACCIA UN BILANCIO SERENO E APPASSIONATO DI OLTRE 50 ANNI DI CARRIERA: IL MAESTRO JAQUES BREL E GLI ALTRI MODELLI DELLA CHANSON FRANCESE; LA SQUADRA RICORDI CON IL CENTRAVANTI GINO PAOLI; LE NOZZE MAGICHE TRA MELODIA E TESTO DA TAJOLI A DE GREGORI; I PROFILI RETORICI E REALI DELLE MUSE ISPIRATRICI TERESA, MADDALENA E ANNAMARIA.

Sergio Endrigo

Al manifesto de L’Uomo che Ride di Victor Hugo, una mano anonima aggiungeva un “non”. E quell’Uomo che Non Ride era l’incipit della scenetta. Alighiero Noschese, il caposcuola inarrivabile di tutti i Max Giusti, Max Tortora, Maurizio Crozza, aveva fatto di Sergio Endrigo una delle macchiette più gettonate del suo repertorio.
Lo imitava rasentando la perfezione senza nemmeno ricorrere a trucchi speciali, sporgendo in avanti il mento come il don Vito Corleone di Brando, l’espressione mesta, la fronte corrugata e gli occhi socchiusi, circondato da ballerine abbigliate a lutto e singhiozzanti, lui vestito di nero sibilava un po’ le “esse” e parafrasava “Lontano dagli occhi” intonando: “…non fate le corna, non fatemi torto, jella non porto ma rider non so”. E Sergio Endrigo masticava amaro: non sopportava quell’imitazione ma neanche si azzardava ad intervenire per lo scrupolo di frapporre censure e limitazioni al lavoro di un altro artista. Poi la goccia fatidica sopra il livello di guardia.

“Nell’ennesima parodia televisiva – racconta Endrigo – la canzone presa di mira diventò “Ci vuole un fiore” e sempre circondato da ballerine in vedovanza, Noschese mi rappresentò cantando: “Per far la bara, ci vuole il morto”. Troppo! Con me in quel momento c’era Sergio Bernardini, il patron della Bussola in Versilia. Sapevo che qualche sera dopo avrebbe ospitato proprio Noschese. “Digli che se riprova a dipingermi come il protagonista della Patente di Pirandello appena lo incontro gli spacco la faccia!” E da quel giorno Alighiero… dimenticò di inserirmi nel suo repertorio…”

Paura della nomea di menagramo?

“Terrore. Per un artista equivale alla morte civile. Un mio zio compositore di sinfonie incantevoli era stato praticamente messo al bando per una diceria del genere, ovviamente alimentata da concorrenti di scarso talento ma di spietata determinazione. Ricordo una volta in uno studio di registrazione della RCA che qualcuno lo nominò e subito un fonico si esibì nel più volgare dei gesti di scongiuro, incassando una raffica di improperi da parte mia”

Mia Martini pagò una parcella terribile per gli effetti di quella maledizione…

“Uno stato di emarginazione totale: impresari, discografici, colleghi, molti sogghignavano partecipando a quel gioco circolare di calunnie dettagliate, altri si dimostravano realmente impauriti dal contatto anche soltanto visivo con quella povera ragazza marchiata come dispensatrice di calamità”

Lei cosa fece per aiutarla?

“Restavo fuori dal coro e insultavo i coristi quando mi capitavano a tiro. Cercavo di trasmetterle solidarietà, l’affetto per l’essere umano fragile, la stima per l’artista tangibile. La invitai a partecipare ad un mio progetto discografico: un album di canzoni venete in cui lei cantò due brani: Cecilia e Donna Lombarda. Al ritorno da uno dei miei periodici viaggi in Brasile le feci conoscere una canzone che sembrava scritta per la sua voce: Milho Verde. Le piacque, la incise: un’esecuzione soave e delicata come una farfalla rosa”

Sergio Endrigo “La Periferia” (Cinebox, 1962).

Le chiacchiere sulla sfortuna non hanno coinvolto Sergio Endrigo, forse per la sua tempestività nell’intervenire su Noschese o forse perché quell’imitazione era così esilarante da palesare l’innocenza di contenuti e intenzioni. Ma l’immagine di artista e anche di uomo malinconico è sua compagna da sempre: per quei brani così intensi pur nella leggerezza della musica pop, per quelle interpretazioni così misurate nella compostezza scenica e melodica, per quei testi così garbatamente introspettivi pur nelle marcette per bambini sagaci. Cinquant’anni fa, al suo esordio, Sergio Endrigo per il pubblico di tutte le età era già un adulto.
“Quando nel 1968 vinsi il Festival di Sanremo con Canzone per te il settimanale Epoca mi dedicò la copertina. La didascalia recitava: Trionfa a Sanremo un vecchio signore. Avevo 35 anni. Ma anche alcuni colleghi hanno talvolta espresso giudizi curiosi sul mio aspetto. Ricordo una simpatica e bella cantante che mi disse: sembri un ingegnere più che uno di noi. E Adriano Celentano commentò a Sanremo nel 1970: sembri un cowboy tra i grattacieli ”

Sergio Endrigo sul set del videoclip "La Periferia"

L’uomo Endrigo è effettivamente una persona seria, coerente, rigorosa e non di rado spigolosa. L’artista è quanto di meglio il nostro paese sia riuscito a produrre nell’ultimo mezzo secolo di canzoni d’autore. Un adulto – anche quando anagraficamente non lo era – che però ha sempre affascinato i giovani, un artista dal target transgenerazionale: Io che amo solo te nel 1963 fece sognare e innamorare eserciti di ragazzini e sbarbine, ma quel 45 giri conquistò anche i loro genitori e i genitori dei genitori, più di Oscar Carboni, più di Alberto Rabagliati.

“È vero, negli anni ’60 mi rivolgevo a tutto il pubblico, dai minori di 16 agli ultrasessantenni. Non c’era distinzione nella proposta musicale. E non mi riferisco soltanto alle mie proposte, ma anche a quelle di Paoli, di Gaber, di Meccia, di tutti gli altri cantautori , di compositori-cantanti come Fidenco e Vianello. Oggi l’industria fabbrica offerte per giovani a spettro ridotto, che producono steccati, che ritardano o arrestano la crescita culturale”

Meriti e colpe dei discografici, un tempo audaci e illuminati, oggi miopi e tremebondi…

“Luoghi comuni con tante verità e parecchie eccezioni. Ho incontrato anche a quell’epoca ostacoli: il direttore delle vendite della RCA, Pulvirenti, era contrario all’uscita di Io che amo solo te perché reputava l’introduzione orchestrale eccessivamente lunga e raffinata: troppi archi, poca ritmica. Ma io ho sempre detestato la batteria!”

Ostacoli comunque superati…

“Sì, i discografici di quegli anni erano abbastanza rispettosi della volontà dell’artista: tante proposte, molti suggerimenti, rarissime imposizioni. C’era dialogo continuo che spesso si trasformava in dibattito allargato ad altri colleghi. Alla Ricordi facevo ascoltare i miei pezzi a Luigi Tenco, a Giorgio Gaber e loro facevano altrettanto; c’erano Nanni Ricordi e il suo vice Franco Crepax che incoraggiavano il confronto”

Sergio Endrigo “Ora che sai” (Cinebox, 1964).

Però con l’RCA ci fu un litigio che sfociò nel divorzio…

“Volevano che incidessi la versione italiana di un brano di Udo Jurgens: Warum Nur Warum. Mi rifiutai, insistettero al limite della soperchieria, me ne andai”

La versione italiana di Warum Nur Warum fu incisa dallo stesso Jurgens con il titolo Peccato che sia finita così…quasi una dedica all’Endrigo fuggito. E quella cover riscosse tra l’altro un invidiabile successo…

“Riconosco che era una canzone piacevole, magari anche adatta al mio repertorio. Ma non potevo e non dovevo accettare l’intimazione dell’azienda per non creare un precedente rischioso. Sono un cantautore ed era giusto che incidessi le mie canzoni. Già un anno prima avevo commesso quello che considero l’unico errore della mia carriera, ossia registrare Se le cose stanno così, un brano composto dal maestro Bacalov con le parole di Alessandro Fersen, regista teatrale di chiara fama. Il disco vendette oltre un milione di copie. Una sera ebbi occasione di conoscere Fersen: lui era circondato da giornalisti e si confessò quasi imbarazzato per aver confezionato un prodotto di così modesta portata culturale. Un punto di vista che mi ferì a morte. C’era poi un’altra ragione per rifiutare la canzone di Jurgens: Ennio Melis, il direttore dell’RCA, manifestava più attenzione per i cantautori giovani, Francesco De Gregori e Antonello Venditti in testa. Era percettibile insomma l’orientamento a riverniciare il parco artisti: il mio fu un contropiede”

Dettato anche da un pizzico di gelosia?

“Per De Gregori? L’ho sempre e soltanto ammirato: è il cantautore italiano che preferisco”

Perché?

“Perché si applica con successo nell’infondere dignità alle canzoni attraverso testi di poesia brillante. Dal suo lavoro sono nate frasi come: “Capelli bianchi che si fermarono a una fontana a pettinare gli anni”. E riesce a coniugare poesia e melodia con efficacia straordinaria. È un matrimonio difficile, ma quando si consuma affiorano pagine indelebili. Mi piace ricordare Fontana e Migliacci con la loro bellissima: “Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato”. Non basta un testo fascinoso, il più geniale dei compositori potrebbe mettere in musica l’Inferno di Dante con esiti grotteschi. Se un testo incontra la giusta melodia il risultato è garantito a prescindere da ogni significato. Ricordo un brano di quando avevo 13 anni. Lo cantava Luciano Tajoli: “Il mare non ama i bastimenti alle catene, se il mare a nessun altro vuole bene, perché deve volerne a me?”. Suonava alla perfezione, nonostante l’evanescenza concettuale. Potrei fare altri esempi come “La pioggia non bagna il nostro amore quando il cielo è blu” oppure “Il mondo non si è fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno ed il giorno verrà” frasi che stese su pagina hanno poco senso ma che sposate alle rispettive melodie acquisiscono un’energia portentosa”

Sta dicendo che il valore intrinseco dei due componenti – musica e testo – è trascurabile ai sensi del risultato della combinazione?

“Intendo dire che la canzone non deve necessariamente essere impregnata di poesia. Capolavori come Pippo non lo sa, Marameo perché sei morto o Il pinguino innamorato non erano stati corretti in bozza da Carducci”

Un’equidistanza sorprendente per essere il cantautore italiano più apparentato con la poesia, che ha trasformato in canzoni i versi di Rafael Alberti, di Gianni Rodari, di Pier Paolo Pasolini, che ha inciso album assieme a Giuseppe Ungaretti e a Vinicius De Moraes. A ricordargli materialmente il poeta brasiliano de “La vita, amico, è l’arte dell’incontro” c’è sempre Paco, il variopinto pappagallo che in compagnia di Vinicius acquistò a Rio oltre trentacinque anni fa. Paco spizzica carote nella sua imponente gabbia accanto alla finestra: è il più in forma di tutti in questa calda e umida giornata romana di fine agosto. Endrigo lamenta una serie di acciacchi, lotta da qualche tempo contro i mulini a vento che gli insidiano la salute. Lo scorso 15 giugno ha compiuto 72 anni, è vedovo da 11, vive con la figlia Claudia nella sua personale Arca di Noè che ospita oltre a Paco cani e micetti. Se il fisico è provato, lo spirito tiene botta: “Nessun rimpianto. Ho realizzato tutti i miei sogni, centrato i bersagli. Neanche troppo rammarico per i miei ultimi quattro album, strangolati da promozione inesperta e distribuzione inadeguata. Dico la verità: all’inizio non credevo che la mia carriera sarebbe durata tanto a lungo. Al mio esordio discografico, con “Bolle di sapone”, passavo davanti alle vetrine della Ricordi a Milano, dove il disco era esposto e mi chiedevo: ma perché mai qualcuno dovrebbe acquistare proprio il mio 45 giri?”

Sergio Endrigo “La dolce estate” (Cinebox, 1964).

Sergio Endrigo è nato a Pola, capoluogo dell’Istria prima di passare nel 1947 sotto l’amministrazione jugoslava. Infanzia e adolescenza in povertà, dopo la prematura morte del padre, scalpellino del marmo, ma anche pittore e tenore autodidatta. Prima qualche mestiere improvvisato, poi l’avventura della musica: la prima chitarra, ingaggi come cantante e contrabbassista nelle orchestrine dei night-club, in seguito voce solista di un complesso di rango, quello del sassofonista Riccardo Rauchi. Nel 1960 l’ingresso nell’ingegnosa area Ricordi, in squadra con Paoli, Tenco, Gaber, Jannacci, Bindi: la Juventus della canzone d’autore. Chi era il centravanti?

“Gino Paoli. Partì subito con canzoni bellissime, molte rimaste sconosciute. Il più apprezzato degli autori: ottimo per Mina, eccellente per Ornella Vanoni. Ma lui no, non volevano farlo cantare. Quel tono di voce così fuorischema, disallineato, poteva rivelarsi noioso, persino irritante. Meglio non tentare. Anche la mia voce risultava non conforme alla tipologia convenzionale: feci un’audizione alla Rai per cantare nell’Orchestra di Pippo Barzizza e venni scartato. Voce e stile eccessivamente “americanizzati” fu la motivazione del verdetto di condanna pronunciato dalla Commissione Ascolti. Poi, per Gino e per me, sappiamo come andò”

Voi padri della canzone d’autore italiana a quali modelli vi ispiravate?

“Ci piaceva qualche fuoriclasse americano dello swing, tipo Nat King Cole. Tenco, che suonava anche il sax , adorava Paul Desmond. Bruno Lauzi era attratto dalle magie del musical alla Gene Kelly, Bindi coglieva i frutti della sua formazione classica. Ma in prima battuta eravamo tutti affascinati dagli chansonnier francesi: dalla vecchia guardia di Charles Trénet ai più giovani Gilbert Bécaud, Charles Aznavour e soprattutto Georges Brassens. Io poi vivevo nell’incanto artistico di Jacques Brel, quei testi, quelle storie, quelle interpretazioni. Lo conobbi più tardi, a Roma nel 1964: era cordiale, sereno, gli confessai che senza la sua influenza non avrei mai potuto scrivere Viva Maddalena

Influenza a parte, qual è il metodo di scrittura di Sergio Endrigo?

“Scrivo alla chitarra. Parole e musica assieme. Il testo è fondamentale per stimolare la mia creatività. Se compongo soltanto la musica poi le parole non mi vengono più o mi fa difetto l’abilità per adattarle alla melodia. Accadde una volta a Napoli: scrissi di getto una traccia musicale che mi sembrava deliziosa. Non persi tempo a cercare le parole, telefonai a Sergio Bardotti che confezionò rapidamente un testo altrettanto ammaliante: Te lo leggo negli occhi. Divenne un successo per Dino”

Perché non la cantò lei e comunque perché non l’ha mai incisa anche successivamente a Dino?

“Evidentemente in quel periodo avevo già il mio progetto discografico. La versione di Dino era perfetta, cosa avrei potuto aggiungere io a quel brano? Sono contento che l’abbia inciso recentemente Franco Battiato. La sua esecuzione è un omaggio importante, la mia sarebbe stata superflua”

L’ispirazione di un testo è facilitata da un innamoramento? C’è stata sempre una Teresa, una Maddalena, un’Annamaria propellente della composizione?

“Nel mio caso soltanto un’Annamaria. Si chiamava così un’impiegata dell’RCA, musa ispiratrice anche per Io che amo solo te. All’inizio della mia carriera, quando cantavo nei night-club, l’innamoramento era sistematico: le storie duravano circa 15 giorni, il tempo del contratto, lei era quasi sempre una frequentatrice abituale del locale, una spogliarellista, un’entreneuse, una guardarobiera. Amate molte, capita nessuna”

Abbiamo già parlato di poesia e di verosimiglianza dei testi. Analizziamo le donne delle sue canzoni. Maddalena che regala notti bianche è la compagna ideale per un uomo?

“È la gioventù che regala notti bianche. Con Maddalena. Si comincia sempre con Maddalena, con l’attrazione sessuale. Non credo nella verginità, renderei obbligatorio il periodo di convivenza prima del matrimonio. Tantomeno credo nella donna per amico”

Ingiungeva a Teresa di raccontare la verità sulle sue esperienze pregresse. Senza concederle il beneficio del dubbio o il velo di una pudica omissione…

“In amore ho stabilito il divieto di esibirsi in menzogne”

Il protagonista di Via Broletto 34 era un uomo geloso o un paranoico?

“Un uomo geloso”

Ma c’era bisogno di ucciderla?

“Convivevano. E lei lo tradiva spudoratamente. Mi ispirai ad un delittaccio di cronaca, conciato alla maniera di Brel”

Brel continua ad influenzare le nuove generazioni?

“Avverto le tracce di Brel soltanto nei lavori dei grandi. I Quattro amici al bar di Paoli mi ricordano i tre giovani vitelloni che stornellavano gli sfottò la sera davanti al Circolo dei Notai: “i borghesi sono dei porconi più diventan vecchi meno sono buoni” e che da adulti si ritrovano a loro volta notai, insomma Les Bourgeois. Anche la suggestiva I Vecchi di Claudio Baglioni mi fa pensare a Brel e ai suoi commoventi Les Vieux. Alcuni autori delle recenti generazioni si mostrano attenti nella ricerca dell’opera dei Maestri: è fondamentale conoscere la storia se si vuol scrivere qualcosa che rimane; gli altri creano testi che diventano cenere nell’arco di un mese. Testi standardizzati e voci massificate, dal timbro esatto e saldamente intonate ma senza personalità, anonime. Natalino Otto e Achille Togliani , impeccabili per timbro e per intonazione, li riconoscevi fra un milione”

Il modello di molti giovani cantautori è proprio Sergio Endrigo.

“Me ne sono accorto ed è quanto di più gratificante possa accadere ad un anziano signore – oggi Epoca potrebbe scriverlo con persuasione anagrafica – che per tutta la vita ha sperato di lasciare un’impronta del suo passaggio. I giovani mi coccolano con manifestazioni di stima, allestiscono concerti che esplorano il mio repertorio, incidono i miei brani, compilano album in mio onore: sono artisti già affermati come Vinicio Capossela, Sergio Cammariere, Tosca, Cristiano De Andrè o in crescita inarrestabile come La Crus, il Parto delle Nuvole Pesanti o Simone Cristicchi che mi ha inoltre invitato a una partecipazione in voce per il suo ultimo lavoro. Ecco, quando ti senti di aver raggiunto il termine della strada e ti ritrovi circondato da una compagnia così vivace e grata, perdoni alla vita tutti gli oltraggi, anche il più invalidante, quello del deficit uditivo che a metà degli anni ’80 mi costrinse a ritirarmi dalle scene. Ero al festival di Sanremo, nel 1986: alle prove la mia esibizione era apparsa più che decorosa, poi in serata davanti al pubblico e alle telecamere dell’eurovisione, all’improvviso, il male. Non sentivo più l’orchestra e leggevo il disagio negli occhi del direttore mentre la mortificazione mi stringeva alla gola. Non sono mai guarito del tutto, ma ci sono state fasi sensibili di miglioramento, durante le quali sono tornato ad esibirmi e ad incidere.
Insomma il bilancio è in netto attivo, sono riconoscente verso il mio pubblico e i miei simili in generale. Oggi mi piacerebbe dire al povero Noschese che l’Uomo che Non Ride è comunque un uomo felice.

Roma, agosto 2005

Sergio Endrigo sul set del videoclip "La Periferia"

NUNZIO ROTONDO

Filosofo dell’improvvisazione

Nunzio Rotondo

“Il jazz è gioia: anche il brano più languido, più struggente, che sia My Funny Valentine di Chet Baker o I Remember Clifford di Benny Golson, esplode di energia appena all’esposizione del tema subentra l’improvvisazione. È il momento liberatorio del musicista, c’è esultanza in lui anche se la sequenza di note ispira malinconia. L’improvvisazione è una maschera teatrale, un camuffamento dello stato d’animo, il più efficace degli analgesici per lo spirito: tu suoni e l’appagamento ha la meglio su tutto il resto”. Così Nunzio Rotondo, la tromba jazz più autorevole della musica italiana, ci illustrò il suo senso per l’armonia generale quella sera del 1999, appena terminato di fraseggiare la toccante You Don’t Know What Love is. Eravamo scesi dal palco del Ti Voglio Bere, un Jazz Bar nel quartiere Prati di Roma: Claudio Colasazza al pianoforte, Dario Rosciglione al contrabbasso, Gianni Iadonisi al sax tenore, io al sax baritono per accompagnare lui, Nunzio Rotondo, il “Miles Davis italiano”, lo strumentista che il mio idolo Sonny Rollins non dimenticava di chiamare ogni volta che transitava nel nostro Paese.

1959. Nunzio Rotondo alla tromba e Gil Cuppini alla batteria in “Bernie’s Tune”. Frammento dal programma “Il Mattatore”. (Per visione o acquisto dell’intero filmato scrivere a www.teche.rai.it)

Così incontenibile era la sua voglia di suonare da non perdersi in distinzioni tra professionisti e dilettanti da ammettere in squadra. “L’improvvisazione è come ‘A Livella di Totò – rispondeva alle dichiarazioni di modestia – ci dispone tutti sullo stesso piano”. Sì, magari. Eppure era sincero Nunzio Rotondo che poneva l’improvvisazione al centro dello scibile musicale. Giocava coi paradossi a riscrivere la storia del jazz. “Ma quali americani! Il jazz è universale, è ubiquo, è nell’aria, è sempre esistito. Dimentichiamoci il ritmo: il jazz è soprattutto improvvisazione e l’improvvisazione era il terreno di sfida tra Mozart e Muzio Clementi, l’incentivo del genio di Bach, il propellente creativo del giovane Beethoven, il soffio vitale del codice gregoriano nella musica sacra”.

1978. Nunzio Rotondo (tromba), Bruno Biriaco (batteria), Enzo Scoppa (sax tenore), Stefano Lestini (piano elettrico), Franco D’Andrea (pianoforte), Dodo Goya (contrabbasso). Frammento dal programma “Incontro con Nunzio Rotondo”. (Per visione o acquisto dell’intero filmato scrivere a www.teche.rai.it)

Patrocinatore di ogni contaminazione purché diretta a esaltare il jazz era allegro e soddisfatto per aver coinvolto qualche settimana prima Lucio Dalla in una serie di concerti per tromba e clarinetto e addirittura nella riscrittura swing di 4 marzo 1943. Come per Vinicius de Moraes anche per Nunzio Rotondo la vita era l’arte dell’incontro: però un incontro ravvisato in una prospettiva settaria, quella di stabilire un contatto suonando assieme, con chiunque sapesse esprimersi improvvisando. Nunzio Rotondo se n’è andato il 15 settembre del 2009. Ci ha lasciato tanti dischi belli e il ricordo della sua appassionata storia d’amore. Per la musica jazz.

1999. Ti voglio bere. Claudio Colasazza (tastiera), Nunzio Rotondo (tromba), Dario Rosciglione (contrabbasso), Gianni Iadonisi (sax tenore), Michele Bovi (sax baritono).

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Nunzio Rotondo, Louis Armstrong, Nini Rosso

Nunzio Rotondo, Louis Armstrong, Nini Rosso.

Nunzio Rotondo "The legend",raccolta di successi nella collana Via Asiago 10 Radio Rai.

Nunzio Rotondo “The legend”, raccolta di successi nella collana Via Asiago 10 Radio Rai.

PIERFRANCO COLONNA

“SO CHE TU NON CREDI”, frammento della versione inedita del 1999.
Nella preparazione dell’album “Percorsi” Pierfranco Colonna registrò anche le cover di quattro cavalli di battaglia del suo vecchio repertorio live: “Quando un uomo non sa amare”, “Sono un uomo senza pietà” (ambedue incise per la Ariston), “So che tu non credi” del suo ex gruppo I Ragazzi del Sole e “San Franciscan Nights” dell’amato Eric Burdon. Soltanto questa quarta venne pubblicata nel cd uscito nel 1999, le altre tre non piacquero all’artista: disse che preferiva tenersi a distanza dal confronto con il passato.

Il bianco dalla voce nera

“ESTATE MILLENOVECENTOSESSANTASEI. UN POMERIGGIO A MILANO. AVEVO APPENA FIRMATO UN CONTRATTO CHE MI IMPEGNAVA IN ESCLUSIVA CON LA CASA DISCOGRAFICA ARISTON INSERENDOMI NELL’EMPIREO DEI CANTANTI. PECCATO CHE FOSSI GIÀ OBBLIGATO DA UNO SCRITTO DAL MEDESIMO CONTENUTO CON UN’ALTRA CASA DISCOGRAFICA, LA VEDETTE. BASTAVA GIRARE L’ANGOLO PER PRENDERMI DALLA VEDETTE LA LIBERTÀ DELLA MIA PRODUZIONE. FRASTORNATO DAL CALDO AFOSO MI FERMAI IN UN BAR PER TIRARMI SU E AVERE LE IDEE PIÙ CHIARE: UN WHISKY DOPPIO, UNA SIGARETTA UN PO’ TRUCCATA CON QUALCOSA CHE SAPEVO IO. MA ANCORA NON MI SENTIVO ABBASTANZA DETERMINATO E PRIMA DI SALIRE LE SCALE PRESI ANCHE UNA PASTICCA…”

Pierfranco Colonna

Pierfranco Colonna.

Comincia così la serie di appunti autobiografici compilata con l’avvocato torinese Maurizia Girlando da Pierfranco Colonna, uno degli artisti più promettenti della musica italiana nella seconda metà degli anni sessanta.
Meteora luminosissima inghiottita dal buco nero della trasgressione: una promessa non mantenuta, una vita travolta dagli eccessi, dall’alcol, quei trucchi alle sigarette, quelle pasticche e tutto il repertorio delle droghe. La sua autobiografia è ancora inedita, lui se n’è andato per sempre il 9 luglio del 2001.
Franco Castellani, torinese classe 1945, nasce discograficamente come cantante de I Ragazzi del Sole. Ha vissuto a Londra, parla e canta in inglese corretto, interpreta il blues come nessuno in Italia, piace tanto alle ragazze: il gruppo gli sta stretto e fioccano le proposte per diventare solista. Il discografico Alfredo Rossi e Franco Califano lo ribattezzano: Pierfranco Colonna, un cognome nobile per il più elegante dei bluesmen nostrani. Incide due bei dischi che si fanno notare, stravince Settevoci, il programma tv domenicale di Pippo Baudo. Lo chiamano “il bianco dalla voce nera”, una definizione che in seguito slitterà su Fausto Leali.

Pierfranco Colonna

Colonna si attesta come il più interessante interprete italiano di Soul Music, nei suoi concerti, oltre ai brani incisi, esegue solo pezzi di Otis Redding e Georgie Fame, forte di un supergruppo in cui ha personalmente radunato musicisti catturati in altre prestigiose band: al basso Mario Scotti (suonerà in seguito con Lucio Battisti, Jimmy Smith e Ennio Morricone); alla batteria prima Gigi Federici (già con Little Tony) e poi Roberto Senzasono (già Skilars di Ricky Shayne); all’organo Thomas Gagliardone (già New New Dada, poi Equipe 84): alla chitarra Piero Pantò (già con Michele); ai sax Michele Bovi (in seguito con Le Pecore Nere), Mariano Lozzi e Francesco “Paolino” Angelillo; alla tromba Filippo Bianchi (già con Edoardo Vianello); e un paio di spettacolari novità per l’epoca: le congas suonate dal fraterno amico Enrico Buscaglia e due ballerine, una bianca e una nera, che si scatenano ai suoi fianchi sul palco.

Pierfranco Colonna con il suo gruppo

Pierfranco Colonna e la prima formazione dei Boa Boa.

Un poster originale di Pierfranco Colonna.

Un poster originale di Pierfranco Colonna.

Pierfranco Colonna e i Boa Boa al Titan Club di Roma.

Pierfranco Colonna al Titan Club di Roma con il suo gruppo nel 1967

Pierfranco Colonna e i Boa Boa al Titan Club di Roma, novembre 1967. Thomas Gagliardone (organo), Roberto Senzasono (batteria), Piero Panto’ (chitarra), Mario Scotti (basso), Michele Bovi (sax), Mariano Lozzi (sax), Enrico Buscaglia (congas). Il ragazzo in primo piano che sta ballando è Renato Zero.

Pierfranco Colonna

Un poster originale di Pierfranco Colonna.

A gestire la pianificazione dei suoi concerti è Massimo Bernardi, l’intraprendente proprietario del Titan Club di Roma – alternativa raffinata al Piper – che ingaggia in Italia Stevie Wonder, Wilson Pickett e Jimi Hendrix.
Nel maggio del 1968 Pierfranco Colonna e il suo gruppo fanno da spalla nei concerti romani di Jimi Hendrix. Il cantante torinese sembra a un passo dal grande successo.

Soltanto tre mesi dopo, sulla costa romagnola, al Bobo di Misano la prima caduta: non si presenta sul palco, vittima di una miscela esplosiva alcol-droga. Di lì è tutto un calvario: ancora qualche brutto disco, esibizioni pubbliche rarefatte, ma soprattutto ospedali, stupefacenti e carcere in Italia, lavoro e stupefacenti e carcere in Sudamerica e ancora dappertutto stupefacenti e ospedali.

Pierfranco Colonna

A metà degli anni novanta torna in Italia, ha smesso di drogarsi e di bere, tenta il ritorno alle scene e nel 1999 incide l’album Percorsi: l’artista è intatto, ma l’uomo è stremato e la voce è affaticata. Percorsi contiene una canzone suggestiva, Maledetto Amore, che suona come la fine di un diario: “La mia anima è un’azienda in passivo, ho svenduto troppe azioni, mi sono messo in troppi guai. Chi è sbagliato sono io, scusa Dio ma non ci sto, me ne voglio andare via, voglio riposarmi un po’, maledetto sia l’amore, maledetti i miei… non so”.

il 17/6/1997 la rubrica Tg2 Salute curata da Michele Bovi mandò in onda questo insolito servizio dedicato a Pierfranco Colonna e alle sue vicissitudini esistenzialpatologiche. Nel servizio il giornalista Tito Manlio Altomare intervista il cantante, i due medici che lo avevano in cura – il dottor Angelo Zannero del Servizio tossicodipendenze dell’Ospedale Mauriziano di Torino e il dottor Sarino Aricò, gastroenterologo ed epatologo – e Piero Pantò, ex chitarrista dei Boa Boa, il gruppo di Colonna.

DISCOGRAFIA

I Ragazzi del Sole – I Ragazzi Del Sole, Jolly LP 1965
I Ragazzi Del Sole – Se mi chiamerai / Non ridere di me, Jolly 45giri 1966
Pierfranco Colonna – Quando un uomo non sa amare/Anche lei lo sa, Ariston 45giri 1966
Pierfranco Colonna – Un uomo senza pietà / Sotto gli alberi gialli, Ariston 45giri 1967
Pierfranco Colonna – Unca Dunca / Anche lei lo sa, Ariston 45giri 1967
Pier Franco Colonna – Passo / Che uomo sei, Apollo 45giri 1970
Franco Colonna – Apriti uomo / I giorni contati, Studio 45giri 1971
Pierfranco Colonna – Percorsi, Carosello CD 1999.

Alcuni dischi di Pierfranco Colonna

Pierfranco Colonna

La copertina del 45giri con le canzoni “Unca Dunca” e “Anche lei lo sa”, illustrata da Bruno Bozzetto (1967).

Pierfranco Colonna

Pierfranco Colonna.

CLEM SACCO

Addio Clem Sacco. Protodemenziale del rock

SE N’È ANDATO NELLA NOTTE DEL 9 MARZO CLEM SACCO, L’ANTESIGNANO DELLE CANZONI BIZZARRE: IL 19 MAGGIO AVREBBE COMPIUTO 91 ANNI. RIGOROSAMENTE CENSURATI DALLA RAI I SUOI BRANI COME “OH MAMA VOGLIO L’UOVO ALLA COQUE” E “BACIAMI LA VENA VARICOSA” HANNO FATTO SCUOLA PER DIVERSE GENERAZIONI DI ROCKERS ITALIANI.

Clem Sacco ©foto Fernando Borrello

“Baciami la vena varicosa, succhiami il dente del giudizio, strappami il pelo del neo, vampira vampira vampira cha cha”. Non è un testo di Elio e le Storie Tese, né di Freak Antoni e i suoi Skiantos. Non c’entrano gli Squallor. Sono versi scritti ed incisi molti anni prima, inizio millenovecentosessanta, dal più audace e sgangherato dei pionieri italiani del rock, Clem Sacco, classe 1933, una vita spericolata che neanche Blasco con StivMecQuin, uno spirito libero che forse soltanto Voltaire…
Sacco nasce al Cairo, padre siciliano, madre piemontese, emigrati in Nordafrica a cercar fortuna – lavorando sodo – come tanti altri italiani. Come i genitori di Yolanda Gigliotti, ad esempio, compagna di scuola di Clem, lei sogna di fare l’attrice, lui il cantante lirico. Scoppia la guerra e gli italiani in terra egiziana diventano il nemico a portata di mano, il bersaglio immobile su cui infierire.

Clem Sacco

Clem Sacco

Papà Sacco e papà Gigliotti finiscono in carcere. Giorni terribili che producono miseria e mortificano le illusioni. A conflitto terminato i giovani se ne vanno. Yolanda a Parigi dove diventerà Dalida, Clem a Milano per studiare canto. Per mantenersi alla Civica Scuola di Musica Lirica Clem scarica cassette di mele e pomodori ai mercati generali e insegna body building (all’epoca si chiama Cultura Fisica) in un paio di palestre. Vanno di moda i film di Ercole e Maciste e Clem, che in Egitto ha praticato a lungo il decathlon, ha il torace e i bicipiti di Steve Reeves. Però il suo mito è Enrico Caruso. Si diploma in canto e si presenta a un’importante audizione: a Mantova cercano un giovane baritono per la stagione lirica. Ma Clem arriva secondo e decide che non vestirà mai più i panni di Rigoletto, se vuole mangiare due volte al giorno deve darsi alla musica leggera: night-club e balere sono più accessibili e meno impegnativi della Scala. È il 1955 e dalla lontana America arriva l’eco di ritmi inediti e fascinosi: un chitarrista grassoccio con un buffo ricciolo alla Macario, tale Bill Haley, lancia un genere battezzato Rock and Roll e canta un brano che fa danzare pure le sedie, “Rock Around The Clock”. Milano si appropria della moda, tra gli orchestrali che fanno capannello alla Galleria del Corso circolano spartiti taroccati, giri di accordi rubati al juke-box, nastrini di pezzi registrati col Geloso. In un paio d’anni all’ombra della Madonnina si forma una scuderia di interpreti rock di cui tutta l’Italia giovane, ribelle, marlonbrandiana e jamesdeaniana favoleggia.

Clem Sacco “L’angolino dell’amore” (Cinebox, 1961).

I pionieri del rock tricolore si chiamano Giuseppe Negroni, Franco Vicini, Johnny Baldini, Silvano Silvi, Big Guidano (poi Guidone), Fausto Denis (poi Leali), Jean Luck (poi Luciano Vieri), Brunetta, Ghigo e Clem Sacco. A fine decennio al gruppo si aggiungono quelli che diventeranno i più famosi: Baby Gate (poi Mina), Adriano Celentano, Giorgio Gaber. Ai periodici raduni milanesi della nuova musica che si alternano tra Palazzo del Ghiaccio e Teatro Smeraldo, partecipano abitualmente anche due stranieri, l’inglese Colin Hicks (and His Cabin Boys), stanziale al Santa Tecla e il sammarinese Little Tony (and His Brothers), “er mejo rocker de Roma”, di ritorno da una folgorante esperienza artistica londinese. Ed è proprio Clem Sacco l’unico a contendere al Molleggiato il picco degli applausi. Grazie alle sue canzoni pazze come “Oh mama voglio l’uovo alla coque” e alle sue altrettanto pazze esibizioni in mutande leopardate.

Clem Sacco con i suoi Califfi “Oh mama, voglio l’uovo à la còque” (Cinebox, 1962).

In realtà Clem e Ghigo hanno una marcia in più rispetto agli altri: sono gli unici a comporre i propri brani. Ghigo scrive e interpreta “Coccinella” con cui riesce ad ottenere un passaggio televisivo al “Musichiere” di Mario Riva, ma poi incappa nella censura con altre canzoni ritenute equivoche. Sacco il veto della censura ce l’ha stampigliato in fronte da quando è nato: ogni suo brano “Enea con il neo”, “Il deficiente”, “Spacca, rompi, spingi” per tacer di vene varicose e uova alla coque, appare come un ignominioso sberleffo al comune senso del pudore. E poi, diamine, presentarsi al pubblico in mutande leopardate!

Clem Sacco “Il deficiente” (Cinebox, 1962).

“All’indomani di quella esibizione, era il 1961 allo Smeraldo – raccontò Clem Sacco – andai negli uffici della mia casa discografica, la Durium, convinto di ricevere l’accoglienza estasiata del presidente Krikor Mintangian, perché a Milano non si parlava d’altro se non del mio uovo alla coque in mutande. Lei ci ha trascinati nella vergogna con quella schifezza di spettacolo! Mi urlò invece sulla faccia Mintangian invitandomi ad uscire e insieme diffidandomi dal ripresentarmi nuovamente al suo cospetto. Così all’embargo della Rai si aggiunse presto quello dei discografici e degli editori”.
Ma Clem non si perde d’animo: nel 1961 è la voce solista dei Ribelli, il gruppo del Clan di Celentano: sostituisce Adriano partito per il servizio militare. “Con il consenso di Adriano sui manifesti compariva questa scritta: Il Clan Celentano presenta i Ribelli, canta Clem Sacco – ricorda il maestro Natale Massara, allora sassofonista dei Ribelli – Clem era l’unico sulla piazza che potesse rimpiazzare il Capo di cui riproponeva tutto il repertorio aggiungendo poi i propri pezzi che erano esilaranti ed esplosivi. La gente si divertiva un mondo: Clem era una forza della natura”. Terminata la ferma Celentano incide una sua canzone “Basta” e Sacco forma un nuovo gruppo, I Califfi con alle chitarre Gino Santercole (nipote di Celentano) e Dino Pasquadibisceglie (ancora oggi collaboratore di Adriano) e alla batteria Enrico Maria Papes, in seguito percussionista e vocione dei Giganti.

Clem Sacco

Clem Sacco e i suoi Califfi.

A credere in lui c’è anche il commendator Angelo Bottani, braccio destro del presidente dell’Inter Angelo Moratti. Bottani, poliedrico operatore economico, si è imbarcato nell’operazione Cinebox, il juke-box con le immagini che affascina i ragazzi dei primi anni sessanta e scrittura Sacco per la realizzazione di 5 pellicole: sono filmati ritenuti oggi i più brillanti antenati del videoclip. Anche il regista Carlo Infascelli chiama Clem per interpretare uno svitato carcerato nel suo film del 1963 “Canzoni, bulle e pupe”. Ma la censura di radio e televisione e il cartellino rosso sollevato dal potentissimo Mintangian fanno di Clem un prodotto fuori mercato. Lui non demorde, continua a scrivere canzoni su canzoni, dai testi sempre più strampalati e trash, costretto a creare una propria etichetta per inciderle e a far da sé anche per distribuirle.

Clem Sacco “Chunga Twist” (Cinebox, 1962).

“A Milano, di fronte al negozio delle Messaggerie Musicali, era perennemente parcheggiato il camper di Clem Sacco – racconta il maestro Vince Tempera – era il suo personale supermarket: vendeva i suoi dischi, le musicassette e mille altre cose, dai tagliaunghie alle carte da poker con le donnine nude. Io che avevo avuto occasione di suonare il piano nel suo gruppo e conoscevo bene quindi il talento dell’artista trovavo assurda e mortificante quella situazione. Eppure lui la viveva alla grande: sempre allegro, vitale, coraggioso. In una sua canzone c’è un verso che fa “papà, voglio un quarto di leone”. Ebbene, sicuramente il padre lo aveva accontentato. Ho incontrato Clem nei giorni scorsi: soltanto un paio di lenti e qualche ruga in più rispetto ad allora; nei modi, nella voce e nello spirito è rimasto il leone di quarant’anni fa”.

Clem Sacco “Vino, chitarra e luna” (Cinebox, 1962).

Per sopravvivere Clem s’inventa mille mestieri: fa il modello all’Accademia di Brera per lo scultore Francesco Messina, rappresentante di commercio, enciclopedie porta-a-porta e le serate che riesce a strappare ad impresari sempre più avari di contratti.
“Un impresario mi disse: non c’è niente per te. – raccontò Sacco – A meno che… ma non oso nemmeno proportelo. È un lavoro che tutti rifiutano, anche quelli un po’… diversi…figuriamoci tu… Risposi che avrei accettato qualsiasi ingaggio. Mi disse che si trattava di un contratto per sei mesi come attrazione all’Alexander Bar, locale esclusivo per omosessuali. Non glielo feci ripetere due volte: accettai di corsa. Comprai una parruccona di capelli lunghi e cambiai nome: per sei mesi fui Clementina Gay, una sorta di orribile travestito che però cantava rock forsennato. Con moglie e due figli da mantenere accolsi l’Alexander Bar come un regalo del cielo”.

Clem sacco

Col passare degli anni la musica per Clem diventa sempre più un’occupazione secondaria, ma mai abbandonata. Da molto tempo vive a Tenerife, nelle Isole Canarie: lì ha cantato di tutto ovunque, rock, classici e folk nei ristoranti e nei night-club.
È tornato ad esibirsi in Italia nell’estate del 2006, invitato da Musicultura a Macerata. Un fiume di applausi per quel nonno carico di dinamite che piace soprattutto ai ragazzi: tre gruppi giovani hanno inciso le sue canzoni: Gaby e i Batmacumba (vedi Modena City Ramblers), i Serf e i Cabona Abusers.

Porretta Terme, 18 luglio 2008. Clem Sacco ospite del Porretta Soul Festival interpreta “Vampira Cha Cha (Baciami la Vena Varicosa)” accompagnato dalla Memphis All Star Rhythm & Blues Band.

Per il Tg2 nel gennaio del 2007 ha condotto con Renzo Arbore il Dossier Storie dedicato ai 50 anni del rock italiano ed è stato premiato da Gene Gnocchi per la Grande Notte di Raidue come “l’artista più trasgressivo nella storia del rock italiano”.
Tra il 2009 e il 2010 si è affacciato a Raiuno per due programmi di punta: I Migliori Anni di Carlo Conti e Ciak Si Canta di Pupo in cui ha interpretato il video Baciami La Vena Varicosa realizzato da Asia Argento che di Clem si dichiara “fan follemente sfegatata”.

Clem Sacco, il video di “Vampira Cha Cha (Baciami la vena varicosa)” ideato e realizzato dall’attrice-regista Asia Argento assieme al suo compagno regista Michele Civetta, per il programma di Raiuno Ciak Si Canta. (9 aprile 2010).

L’ultima sua esibizione italiana risale all’agosto del 2014, sul palco del Fonclea Riverside a Roma: una sfida tra Rock e Beat, Clem Sacco contro Mal dei Primitives, entrambi accompagnati da un gruppo di vecchie glorie del 45 giri.
“Oggi molti rapper infarciscono le canzoni di insulti e ingiurie – dice Vince Tempera – il mercato accetta e anzi benedice ogni provocazione. Molta oscenità ma nessuna trasgressione. Clem fu il primo a sfidare il perbenismo. Ed era genuino: pagò la sua arte e la sua audacia con la disapprovazione dei moralisti e il veto dei codini. Senza neppure mai reclamare. Se n’è andato l’autentico protodemenziale del rock.

Clem Sacco

Clem Sacco in concerto al Fonclea Riverside il 1 agosto 2014. Alla tastiera Detto Mariano; alla batteria Gianni Dall'Aglio, alla chitarra Johnny Charlton, al basso Gianni Colaiacomo, al sax Michele Bovi.

Clem Sacco in concerto al Fonclea Riverside il 1 agosto 2014. Alla tastiera Detto Mariano, alla batteria Gianni Dall’Aglio, alla chitarra Johnny Charlton, al basso Gianni Colaiacomo, al sax Michele Bovi.

“Così ho conosciuto Clem Sacco”

Una testimonianza di Johnny Charlton, ex chitarrista dei Rokes, il gruppo inglese più popolare in Italia negli anni Sessanta.

Johnny Charlton

Johnny Charlton.

Ho avuto la fortuna di incontrare Clem Sacco durante lo spettacolo televisivo di Raiuno Ciak si canta nel 2010. L’ho avvistato nello studio televisivo vuoto e silenzioso: era sprofondato in una poltrona, rilassato e tranquillo come immerso in una ponderosa meditazione. L’ho riconosciuto, ho spezzato l’incanto e mi sono presentato. Mi ha poi educatamente chiesto: “Dove sono i camerini?”
Mentre una signora della redazione gli dava il benvenuto illustrandogli il programma, un altro addetto gli ha offerto una coppa di champagne. Subito e con estrema disinvoltura ha rimosso con destrezza la dentiera mettendola dentro un bicchiere e ha cominciato a sorseggiare allegramente lo champagne con evidente piacere da gourmet. Dopo ogni gustoso sorso succhiava rumorosamente le gengive. Soltanto in un secondo tempo ha notato l’espressione sbalordita della signora e ha esclamato: “Il sapore dello champagne è migliore senza la dentiera! Soltanto cosi posso assaporare il gusto di ogni bollicina.”
Clem è una persona simpatica, piacevole, sorridente e spensierata. Veste in maniera normale, per nulla eccentrica. Vive a Tenerife nelle Isole Canarie ed è una persona felice che vive la propria vita in maniera intensa e stimolante. Clem è ancora incontrollabilmente libero come il vento e ama rilassarsi camminando lungo il bagnasciuga e raccogliendo oggetti curiosi abbandonati dal mare sulla spiaggia. Ha molti interessi e ha un occhio attento per i bei tramonti, il mare e la sabbia. Ma quando sente un po’ di Rock ‘n’ Roll e ha di fronte un pubblico si illumina come un albero di Natale e si trasforma in quell’incontenibile cantante rimbalzante, saltellante, svitato e molleggiato che diventa l’allegro volano della festa. Da allora ho un pensiero ricorrente: credo che una buona fetta dell’umanità vorrebbe essere proprio come lui.